Il giorno di San Pietro e Paolo fu una bella festa, in primo luogo perché festeggiamo l’onomastico di mia Sorella Paolina, che aveva appena avuto la sua seconda figlia, e di mio fratello Paolo, ma soprattutto perché papà, per mantenere una promessa a mamma, mi portò alla fiera di San Pietro. Mia mamma, si sa, amava gli animali. La sera mamma la passava a lavorare a maglia ovvero all’uncinetto, a seconda della stagione, di giorno invece, dopo aver riassettato casa e, quelle volte che mio padre gli cedeva l’incombenza, anche cucinato, trascorreva la sua giornata in terrazzo. Qui accudiva le sue bellissime piante, sempre ricche di fiori, il setter da caccia di mio padre, al quale contrariamente che a gatta ciccia non era permesso entrare in casa, ed una coppia di colombi, che le aveva donato zio Vincenzo, il fratello. Da tempo ripeteva a mio padre che le avrebbero fatto comodo un paio di gallinelle livornesi, che tenute in una piccola gabbia non sarebbero state un problema, ma avrebbero alternativamente prodotto almeno un uovo al giorno. Faceva sempre comodo avere un uovo fresco al giorno, ovvero avrebbe avuto ancora più fedeli amici, i suoi amati animali. Da tempo ossessionava mio padre con quella martellante richiesta, tanto è vero che, il poveruomo per evitare il “cassariamento di cervello” tipico delle donne, le promise che si sarebbe recato alla fiera di San Pietro, per comprarne un paio. Giunto così il sabato 29 giugno, mamma, appena svegli, ricordò a mio padre la promessa. Ci andammo con l’ape, la nostra sauna. La fiera si teneva sul Calopinace, sotto il ponte di San Pietro. Era organizzata e gestita dagli allevatori della provincia. Vi si esponevano animali di allevamento, alla fine ci sarebbe stata anche una sorta di premiazione per l’allevatore più bravo di ogni categoria: ovina, bovina, suina o equina. Era una bella manifestazione. Era piena di allevatori e contadini giunti dalla provincia con ogni mezzo: carri, carrozzini, api, vespe, moto, motocarri, autobus o camion. Un turbinio di voci, di versi, di colori e … di profumi, che sarebbero stati indimenticabili. Vi incontrammo anche zio Vincenzo, il quale chiese a mio padre il motivo della sua presenza. Appresolo, volle provvedere lui a soddisfare il desiderio della sorella, come aveva già fatto con la coppia di colombi. Andammo da un allevatore dal quale si forniva di galline e chiese due “livornesi”, ma le più belle che avesse, perché erano per la sorella, Concetta, che aveva dato il nome all’ultima delle sue figlie. Aggiunse poi che il cognato Ciccio, era altrettanto meritevole delle sue attenzioni. Quindi le galline dovevano assolutamente essere le più belle, a qualunque prezzo. Tornando a casa mio padre mi spiegò che tra lui e i fratelli e le sorelle di mia madre, nonché con i rispettivi coniugi, c’era sempre stato reciproco aiuto. Quando qualcuno aveva bisogno, tutti si facevano in quattro. Capivo a cosa si riferisse, perché ne avevo avuto testimonianza diretta dai pacchi degli zii americani. Mi disse infine che mio nonno Pasquale Bova, anche se da lontano, perché era vissuto in America dove era rimasto pure dopo morto, aveva cresciuto una bella famiglia. Dalle parole di mio padre trapelava tanto affetto e rispetto per la famiglia acquisita. La sera, prima di addormentarmi, pensai che il bene che volevo a mio zio Vincenzo, al quale mi sentivo anche molto legato, oltre che per il nome, fosse proprio il frutto di quel reciproco affetto e rispetto, che avvertivo.
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