La riforma del Titolo V della Costituzione avvenuta con legge costituzionale n. 3 del 2001, comprovata da referendum confermativo conseguente, prevedeva che ai sensi del “nuovo” articolo 116 della Carta costituzionale, le Regioni a statuto ordinario potessero chiedere “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117”, “nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119”. Si trattava di materie di importanza fondamentale per la tenuta unitaria del Paese: scuola, sanità, ricerca, infrastrutture, beni culturali, ambiente, professioni, previdenza integrativa, sicurezza sul lavoro e altro ancora che, con relative risorse, dalla competenza statale sarebbero passate a quella regionale.
Con la riforma del 2001 – si è scatenata la brama autonomistica delle Regioni del Nord, in particolare di quelle a trazione leghista. Il Veneto, ad esempio, aveva chiesto autonomia su tutte e 27 le materie possibili; la Lombardia si era “fermata” a 23 e anche Piemonte ed Emilia-Romagna si erano mosse in questa direzione con accordi raggiunti col governo. La posizione maggioritaria assunta in merito alla questione era stata sin dall’ inizio quella di non accordare autonomia differenziata alle regioni richiedenti se prima non fossero stati definiti i Lep, cioè i Livelli essenziali delle prestazioni, riguardanti diritti civili e sociali determinati dal legislatore e garantiti a livello nazionale. Ovvero: prima di procedere con le differenziazioni, a tutti i cittadini, in tutte le aree del Paese, avrebbero dovuto essere attribuiti in maniera omogenea livelli essenziali di diritti e prestazioni.
Il ministro leghista, Roberto Calderoli, si è messo al lavoro per presentare la sua nuova bozza di disegno di legge sull’autonomia differenziata che verrà presentata Giovedì in Consiglio dei Ministri per l’ approvazione. Il nuovo testo è un provvedimento composto di dieci articoli e un allegato che indica le 23 materie concorrenti tra Stato e Regioni interessate dal disegno di legge, il quale prova a colmare diverse lacune presenti nelle precedenti bozze , lasciando però irrisolti alcuni nodi cruciali.
La novità: ruolo più incisivo del Ministero del Tesoro
La nuova legge sull’autonomia assegna un ruolo più incisivo al ministero del Tesoro, che nella precedente versione era stato sostanzialmente estromesso. Innanzitutto viene richiesto che le pre-intese siano accompagnate da una relazione tecnica che ne stimi i costi. E il Tesoro dovrà essere rappresentato anche nella Commissione paritetica Stato-Regioni alla quale spetta scrivere le intese.
L’intesa con cui lo Stato attribuisce funzioni di autonomia differenziata a una Regione ha una durata “non superiore a dieci anni” e “può prevedere i casi e le modalità con cui lo Stato o la Regione possono chiedere la cessazione della sua efficacia, che è deliberata con legge a maggioranza assoluta da parte delle Camere”. Rispetto alle bozze precedenti, lo schema di intesa va trasmesso immediatamente , e non dopo la sottoscrizione, alla Conferenza unificata: lo schema di intesa definitivo va approvato dalla Regione, e entro trenta giorni è deliberato dal Consiglio dei ministri. Si prevede che la valutazione dell’intesa spetti, oltre che al ministero dell’Economia, anche ai ministri competenti per materia.
Le criticità presenti, evidenziate nel testo:
– Parere non vincolante del Parlamento
Sui Lep- servizi essenziali da garantire a tutti i cittadini- , le Camere (non più le Commissioni per gli Affari Regionali come nella precedente bozza), saranno chiamate ad esprimere un parere entro 45 giorni invece dei 30 precedentemente indicati (15 in più della versione antecedente).
Ma poi il governo potrà adeguarsi o meno ai rilievi del Parlamento.In pratica si continuerà a procedere molto probabilmente a colpi di Dpcm, come fatto durante la pandemia per le misure emergenziali. E’ opportuno ricordare che i Dpcm sono atti amministrativi che possono essere impugnati al Tar, ma non davanti alla Corte Costituzionale. E resta il fatto che, sia sui Dpcm che sulle intese, il Parlamento potrà solo dare un parere non vincolante.
Il nodo cruciale: le risorse per i Lep
C’è poi un ulteriore passaggio che riguarda i Lep e che è quello più rilevante: il nodo delle risorse. Sulle risorse per i Lep si dispone che il loro finanziamento non venga più affidato alla legge annuale di Bilancio (criterio già ballerino), ma genericamente alla legge. Che si tratti di uno dei passaggi più complessi sulla via dell’autonomia, lo si capisce fin dalle premesse della legge Quadro. E’ risaputo che questa riforma non si possa fare a costi zero, perché agendo in tal modo aumenterebbero le diseguaglianze nel paese, che non sono solo quelle tra Nord e Sud, ma anche tra diverse zone delle stesse aree territoriali.
I LEP sono propedeutici alla attivazione del fondo perequativo, previsto dal nostro federalismo fiscale, di natura solidale e non competitiva, per affiancare alla gestione locale delle risorse un contributo nazionale che rimedi ai divari storici e strutturali di alcuni territori. Tuttavia, la perequazione è rimasta fino ad oggi inapplicata, a favore del metodo di calcolo della “spesa storica”. Una delle ragioni per cui i LEP hanno tardato a trovare una puntuale definizione è proprio di natura economica.
La loro individuazione comporta infatti l’approntamento delle risorse finanziarie necessarie per attuarli e garantirli; tali coperture dovrebbero gravare tanto sui soggetti tenuti a fornire le relative prestazioni, quanto sullo stesso Stato con finalità perequative.
È quindi solo con la piena attuazione di quanto indicato nell’articolo 119 della Costituzione della Repubblica Italiana, attuativo del cosiddetto “federalismo fiscale”, che i LEP potranno avere integrale attuazione. Il ministro è d’accordo, ma sarebbe indispensabile capire davvero quanti soldi servono, dove si prendono e come si distribuiscono. La questione è ancora aperta.
Miriam Sgrò