Cassazione: marito inchiodato all’addebito dalla chat di WhatsApp all’amante

L’applicazione informatica di messaggistica istantanea è prova in caso di separazione. Le frasi amorose dimostrano la relazione extraconiugale: i messaggi vanno disconosciuti con elementi che provano come la realtà dei fatti non è quella riprodotta. Rigide le preclusioni processuali

Più volte ci siamo soffermati su come la giurisprudenza abbia dovuto riconoscere spazio alla tecnologia, ormai parte integrante della nostra società. E in questo senso è intervenuta, a conferma la decisione di oggi della Cassazione che ha ritenuto la chat di WhatsApps prova in caso di separazione. Per gli ermellini lo scambio di sms su WhatsApp tra moglie e amante prova l’anteriorità del tradimento rispetto alla crisi coniugale: al marito l’addebito della separazione per colpa delle parole d’amore scritte in chat all’amante. E ciò perché non riesce a disconoscere la veridicità dei messaggini: per escludere l’efficacia probatoria bisogna allegare elementi che attestano come la realtà dei fatti non corrisponda a quella riprodotta. Sono rigide, poi, le preclusioni processuali: non è negli scritti conclusionali che si può contestare che i messaggi siano stati realizzati in modo artificioso dalla controparte. È quanto emerge dall’ordinanza 12794/21, pubblicata il 13 maggio dalla sesta sezione civile della Cassazione. Niente da fare per il marito: diventa definitiva la decisione secondo cui è stata la sua «relazione fedifraga» a rendere intollerabile la convivenza con la moglie, che pure abbandona la casa coniugale prelevando i soldi dal conto in banca. E ciò perché non risulta smentita la valutazione secondo cui le «frasi amorose» ritrovate sullo smartphone dimostrano l’esistenza della «relazione sentimentale» tra l’uomo e l’altra, il tutto a «insindacabile giudizio» della Corte d’appello di Firenze. Inutile per l’interessato contestare di non essere l’autore dei messaggi: in base all’articolo 2712 Cc il disconoscimento fa perdere qualità di prova alle riproduzioni informatiche, degradandole a presunzioni semplici, soltanto se è chiaro, circostanziato ed esplicito; nella specie il marito si limita a dedurre di «non aver mai dato indizio ad alcuna relazione affettiva in costanza di matrimonio». Fuori tempo massimo la contestazione della genuinità dei messaggi contenuta nella memoria ex articolo 190 Cpc: il disconoscimento soggiace alle preclusioni desumibili ex articoli 167 e 183 Cpc. Va detto comunque che l’accertamento è fondato su elementi di prova non indiziaria. C’è anche una confessione stragiudiziale del tradimento, che i testimoni datano nel febbraio 2013 per fatti di fine 2012: superfluo contestarne l’attendibilità in quanto parenti della moglie perché la valutazione spetta al giudice del merito. In ogni caso la circostanza risulta emersa anche dal percorso di mediazione familiare non andato a buon fine: l’uomo avrebbe ammesso di non poter lasciare l’amante. Non gli resta che pagare le spese di giudizio e il contributo unificato aggiuntivo. Secondo la Corte di Cassazione, evidenzia Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, i messaggi sono fonte di prova in giudizio. La circostanza che gli sms possano costituire un’utile fonte di prova in giudizio è un principio che è ormai consolidato nelle aule di giustizia, suffragato anche dall’avallo dato da alcune sentenze della Cassazione.

CS “Sportello dei Diritti”

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