Poiché la storia ci insegna che ogni fenomeno sociale ha o può avere delle implicazioni politiche, è opportuno registrare con attenzione il nuovo concetto che ha fatto oggi il suo ingresso nel lessico politico dell’Occidente: il “distanziamento sociale”. Sebbene il termine sia stato probabilmente prodotto come un eufemismo rispetto alla crudezza del termine “confinamento” finora usato, occorre chiedersi che cosa potrebbe essere un ordinamento politico fondato su di esso. Ciò è tanto più urgente, in quanto non si tratta soltanto di un’ipotesi puramente teorica, se è vero, come da più parti si comincia a dire, che l’attuale emergenza sanitaria può essere considerata come il laboratorio in cui si preparano i nuovi assetti politici e sociali che attendono l’umanità.
Benché ci siano, come ogni volta accade, gli stolti che suggeriscono che una tale situazione si può senz’altro considerare positiva e che le nuove tecnologie digitali permettono da tempo di comunicare felicemente a distanza, io non credo che una comunità fondata sul “distanziamento sociale” sia umanamente e politicamente vivibile. In ogni caso, quale che sia la prospettiva, mi sembra che è su questo tema che bisogna riflettere. Una prima considerazione concerne la natura davvero singolare del fenomeno che le misure di “distanziamento sociale” hanno prodotto. Forte è l’esigenza di ricondurre l’emergenza entro il modello dello Stato di diritto, basato sul principio di legalità, separazione ed equilibrio dei poteri.
Nell’ inedita condizione che stiamo vivendo, nella quale è certamente configurabile un fatto straordinario, la nostra Costituzione, definita come insieme equilibrato di principi e poteri, e di diritti e doveri, è apparsa non più al passo con i tempi.
L’attuale pandemia del corona virus ha di colpo arrestato la frenesia delle nostre vite e attività produttive.I governi hanno scandito fasi di sospensione della normalità. In Italia il capo del governo Conte ha emesso quelli che sono sembrati ai critici ‘editti’ periodici noti come i DPCM – Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri – espressione della maggioranza politica. Sembrerebbe che solo nella massa l’uomo può essere redento dal timore di essere toccato. Dal momento in cui ci si abbandona ad essa, non si teme di esserne toccati: chiunque ci venga addosso è uguale a noi, lo sentiamo come ci sentiamo noi stessi. D’improvviso, è come se tutto accadesse all’interno di un unico corpo. Viviamo uno stato di paura, che in questi mesi si è evidentemente diffuso nelle coscienze degli individui e che si traduce in un vero e proprio bisogno di stati di panico collettivo, al quale l’epidemia offre ancora una volta il pretesto ideale. Così, in un perverso circolo vizioso, la limitazione della libertà imposta dai governi viene accettata in nome di un desiderio di sicurezza che è stato indotto dagli stessi governi che ora intervengono per soddisfarlo.
Viviamo ormai in uno stato di emergenza: sono stati sospesi e violati diritti e garanzie costituzionali che non erano mai stati messi in questione, neppure durante le due guerre mondiali e il fascismo; e che non si tratti di una situazione temporanea è affermato con forza dagli stessi governanti, che non si stancano di ripetere che il virus non solo non è scomparso, ma può riapparire a ogni momento. È, forse, per un residuo di onestà intellettuale che si sostiene che, a prescindere dal virus, il mondo intero vive comunque più o meno stabilmente in uno “stato d’eccezione” e che «il sistema economico-sociale del capitalismo» non è in grado di affrontare le sue crisi con l’apparato dello stato di diritto. Lungimirante Schmitt che, fiducia e speranza non aveva, rilevava il paradosso, e, accettando “la sfida dell’eccezione” , ammetteva la possibilità che lo stato di eccezione divenisse, da caso “eccezionale” caso “normale”. In questa prospettiva, sembrerebbe che l’infezione pandemica del virus, che tiene in scacco società intere, sia una coincidenza e un’opportunità imprevista da cogliere per tenere sotto controllo il popolo dei sottomessi.
Prof. Raffaella Solano