«Le persone più felici non sono necessariamente coloro che hanno il meglio di tutto, ma coloro che traggono il meglio da ciò che hanno»
I versi di Gibran Khalil Gibran non trovano cittadinanza nel mondo contemporaneo. Uno studio di un team di ricercatori internazionali su 360 pazienti over 55 ha definito scientifico un dato che fino a ieri non lo era, pur essendo noto: chi pensa sempre al peggio finisce con l’ammalarsi. Nello specifico, gli studiosi hanno attestato che il pensiero negativo ripetitivo può accrescere il rischio di andare incontro a declino cognitivo a neurodegenerazione e schiudere la porta anche alla demenza senile. Insomma, il pensare e ripensare sempre e solo in chiave pessimistica è un’attività logica inconcludente, che -anzi-peggiora l’ansia e costringe a rielaborare negativamente il passato, pensando soltanto agli scenari futuri peggiori. Sia chiaro: un pizzico di pessimismo, o meglio ancora una buona dose di sano e robusto realismo, consente di affrontare meglio i marosi della vita e superare le tempeste ricorrenti, prima di ritrovare la gioia dei cieli sereni. Tuttavia, il pessimismo radicale – e lo studio recente, più che scoprirlo, lo conferma – conduce su un terreno scivoloso, il cui fondo può essere l’inerzia o la disperazione. Detto in altri termini: nella vita non si può essere tanto ingenui da aggrapparsi ad ogni opportunità in maniera acritica, ma neppure è lecito cedere al cupo e lamentoso pessimismo all’insorgere di un minimo ostacolo, fino a farne alibi per un’inerzia drammatica sebbene comoda. È un po’ l’antica e ben nota legge del bicchiere, mezzo pieno o mezzo vuoto a seconda dei punti di vista, ma è anche molto di più: è l’invito a scegliere il pessimismo cristiano, mai generico e nefasto, ma incentivo alla speranza ed alla certezza di non essere mai lasciati soli a noi stessi. È il monito di Cristo, a vivere in semplicità ed in modo solare come colombe, senza rinunciare al sospetto ed all’astuzia del serpente, facendo sì che la nessuno dei due prevalga sull’altro. È, d’altra parte, il riassunto di ciò che è venuto fuori da questi mesi di pandemia che hanno travolto la scala dei valori e dimostrato – almeno nelle settimane più dure e difficili – come il denaro, il successo, il potere non siano tutto. La morte che si è posta davanti a noi improvvisa ed inattesa, mentre prima sembrava far capolino al più in caso di scomparsa di qualche congiunto, ci ha presentato il conto, rimarcando la labilità di conquiste che parevano eterne. Oggi è chiaro: non potrà esserci avvenire se non si supererà l’egoismo, radice dell’individualismo. Ogni uomo ha bisogno di relazioni, di qualcuno che gli stia accanto, che lo ascolti. Serve umanità. E non potrà essercene se, con pessimismo mascherato da competitività e profitto, ci si ritroverà a dover vestire nuovamente i panni della Mafalda di Charles M. Schultz, la bimba anticonformista che per prendere in giro il mondo tutto latte e miele, nelle tavole del grande fumettista statunitense diceva: «Io amo l’umanità, è il vicino di casa che detesto».
+ Vincenzo Bertolone