Il 2011 è stato un anno di importanti cambiamenti per il Medio Oriente e per il Nord Africa. Parallelamente alla fine dei regimi autoritari in Tunisia, Egitto e Libia e all’effetto domino delle proteste di massa, la Primavera Araba da una parte ha messo in luce una lunga serie di contraddizioni nell’agenda estera di Ankara, dall’altra ha eletto la Turchia a modello di ispirazione per gli stati arabi. Tuttavia, per collocare correttamente la politica della Turchia in Medio Oriente, è opportuno considerare che questa non è condotta in un vacuum ed è strettamente connessa all’orientamento strategico del governo dell’AKP all’interno del più ampio contesto globale. Non è certo un mistero che Recep Tayyip Erdoğan ed Ahmet Davutoğlu, accordando grande importanza all’emergente potere economico e strategico di Ankara, mirino al suo pieno riconoscimento come attore di primaria importanza sia negli affari internazionali che in quelli regionali. Sotto la spinta propulsiva dell’orientamento pragmatico e business oriented dell’AKP, oggi la Turchia è membro del G-20 e dell’OCSE e, forte di una crescita che tra le venti economie più sviluppate del mondo è seconda solo alla Cina e all’India, gioca un ruolo estremamente attivo supportando il dialogo politico e i valori democratici come fattore trainante dello sviluppo e della stabilità della regione mediorientale. L’inatteso avvento della Primavera Araba ha messo chiaramente in luce la condotta di questa “Nuova Turchia”.
Ciò che caratterizza la politica dell’AKP sin dal suo secondo mandato è quindi la tendenza a voler usare il successo economico e l’influenza politica come strumento di soft power per stabilire relazioni pacifiche con i vicini. Politicamente stabile, più democratica rispetto al passato e orgogliosa della propria tradizione imperiale, la Turchia si presenta come mediatore e arbitro delle dispute nell’area. Tuttavia, dopo un iniziale successo, gli eventi dell’ultimo anno hanno portato la strategia di “zero problemi con i vicini” al collasso. Quelli che erano le questioni cruciali dell’agenda di Ankara sono rimaste tali e anzi nuovi nodi sono venuti al pettine: le relazioni con Cipro sono peggiorate, con l’Armenia non si sono registrati miglioramenti, i rapporti con l’Iran sono assai più problematici, quelli con l’Iraq inaspriti dalla guerra al PKK, la “fratellanza turco-araba” con la Siria è clamorosamente fallita e con Israele non si intravvede alcun margine di rappacificamento. Di fatto oggi quella stessa Turchia che acclamava la cooperazione regionale è percepita nel vicinato come una potenza con un’agenda poco chiara. Certamente la Primavera Araba ha colto tutti impreparati e non sorprende se i policy makers turchi abbiano commesso errori di valutazione. In Libia quasi un anno fa Recep Tayyip Erdogan rimarcava la propria amicizia a Gheddafi, considerato un alleato affidabile a tutela dei cospicui investimenti e degli oltre 25.000 lavoratori turchi nel Paese. Tuttavia, l’iniziale contrarietà all’intervento NATO ha registrato un’inversione di tendenza, lasciando il posto a considerazioni prettamente pragmatiche. In questo contesto la Siria rappresenta un caso emblematico di come la pazienza e l’approccio moderato possano svanire: se in un primo momento le politiche di apertura dei confini e di liberalizzazione economica hanno contribuito ad un cambiamento qualitativo dei rapporti con Damasco, come testimonia anche il forte rapporto personale instauratosi tra il Primo Ministro Erdogan e il Presidente Assad, i problemi sono sorti proprio con lo scoppio delle rivolte. Oggi Ankara, caldeggiando un regime change dall’interno, ospita l’esercito dei dissidenti e ha nei giorni scorsi imposto sanzioni economiche volte a colpire il governo di Damasco. La principale preoccupazione è dunque evitare un intervento radicale che, data l’alta frammentazione politica interna e la lunga linea di confine tra i due Paesi, genererebbe un pericoloso effetto di spillover per la stabilità e sicurezza della Turchia. Con il sostanziale fallimento dell’agenda strategica di Davutoğlu cade dunque l’assunto di quel “modello Turchia” le cui radici ottomane avrebbero dovuto garantire il vantaggio di capire il Medio Oriente. A questo punto il dato storico-culturale diventa rilevante ed è doveroso considerare che dopo il crollo dell’Impero Ottomano la moderna repubblica di Turchia è sorta proprio su basi contrarie e opposte alla cultura araba-islamica: l’imperativo politico delll’élite kemalista è stata la rescissione di ogni legame con il passato e il riorientamento politico, economico e culturale di ciò che rimaneva dell’Impero verso Occidente. Inoltre, non è da sottovalutare che spesso nel corso della storia i governi mediorientali sono stati percepiti come autocratici e perciò non idonei a diventare alleati. Sebbene l’AKP, grazie al suo background islamico- conservatore e alle considerazioni pragmatiche abbia mosso i primi passi nel riavvicinamento con il mondo arabo, resta un enorme gap di conoscenza reciproca e la profonda risolutezza dei vicini a voler gestire autonomamente i processi di transizione, senza alcuna interferenza esterna. Nonostante tutte le criticità, la Primavera Araba rappresenta comunque un’opportunità per Ankara. Il governo turco ha dimostrato una grande capacità e rapidità nel passare da politiche incerte a nuovi approcci in linea con la propria convenienza economica. E sarà proprio questa flessibilità a dare nuovo vigore alla Turchia all’interno del nuovo Medio Oriente.
Valeria Gianotta