Qualche giorno fa, al solito annuncio a reti unificate, del Presidente del Consiglio, sullo straordinario impatto avuto dal Jobs Act sull’economia Italiana, ha fatto eco, il Ministro Poletti, che ne ha comunicato gli effetti “miracolosi” riguardanti il primo bimestre di quest’anno:+79.000 assunzioni a tempo indeterminato, equivalenti al 35% in più rispetto al primo bimestre ’14. Ma pochi sanno cosa effettivamente è cambiato con il Jobs Act? In primo luogo, i “vecchi” co.co.pro. e co.co.co. scompaiono per cedere il passo (questa è la speranza) a rapporti di lavoro a tutele crescenti, secondariamente si concede una de-contribuzione, per i successivi 36 mesi, dei contratti a tempo indeterminato stipulati nell’anno 2015. I citati contratti collaborativi, prevedevano, peraltro, una gestione separata della contribuzione INPS, basata su un’aliquota del 28,72%, per i soggetti non assicurati presso altre forme pensionistiche, e su un’aliquota del 22%, per quelli già assicurati, di cui, in entrambi i casi, i 2/3 erano a carico dell’azienda e solo 1/3 a carico del dipendente; sicché il passaggio da questi a quelli a tempo indeterminato pare essere conveniente sia per le aziende, che intendono ridurre i propri costi, sia per i lavoratori dipendenti che otterrebbero una maggiore sicurezza e tutele sempre crescenti. Ma è davvero tutto ora quello che luccica? Andando per gradi, il sistema dei licenziamenti di lavoro, in vigore fino al dicembre 2014, prevedeva, infatti, due tipi di licenziamento: il licenziamento individuale, concernente da 1 a massimo 4 soggetti, disciplinato dal celebre e tanto discusso art. 18 dello Statuto dei Lavoratori; ed il licenziamento collettivo, concernente almeno 5 soggetti facenti parte della stessa provincia, lasciati a casa nell’arco di 120 giorni, regolato in passato dalla L. n°223 del 07/91, poi anch’essa abrogata dal Jobs Act. Ad ispirare tale normativa vi erano tre principi: l’accordo tra impresa e sindacati sulle modalità di selezione dei lavoratori in esubero (in genere quelli prossimi alla pensione); una tutela maggiore, nelle imprese con più di 15 addetti, per i lavoratori di età più avanzata o con maggiori carichi di famiglia; e la disciplina del licenziamento per esigenze tecnico-produttive dell’azienda; sicché ove fosse stato dichiarato illegittimo un licenziamento collettivo, per violazione di uno di tali criteri, l’azienda sarebbe stata tenuta a risarcire il lavoratore dipendente o con un indennizzo economico o con il reintegro stesso nel precedente posto di lavoro. Oggi, invece, con l’avvento del Jobs Act, che nulla ha migliorato in tema di mobilità in entrata, i licenziamento collettivo è persino più semplici da realizzare, poiché in caso di illegittimità dello stesso, il lavoratore dipendente non potrà più essere reintegrato, ma solo risarcito economicamente con un indennizzo di due mesi di stipendio per ogni anno di carriera (da qui la definizione di tutele crescenti) da un minimo di 4 ad un massimo di 24 mensilità; precisando che questo “trattamento di favore” è riservato solo a coloro che hanno stipulato contratti a tutele crescenti e non per quelli in vigore fino a dicembre 2014. Premesso questo, è necessario chiedersi: prese in considerazione le grandi aziende,vittime di una pressione fiscale esorbitante, che, sfruttando quella de-contribuzione INPS triennale, assumono nell’arco del 2015 allo scadere dei 36mesi riterranno ancora vantaggioso il loro rapporto di lavoro con il dipendente che ha stipulato un contratto a tutele crescenti? E in caso di responso negativo, il dipendente, incorso in un ipotetico licenziamento collettivo sarà realmente tutelato con questo nuovo sistema? E dunque, conclusivamente, quei 79.000 “nuovi” lavoratori a tempo indeterminato, di cui si tanto si è vantato il ministro Poletti, possono davvero considerarsi tali o nel 2018 verranno aggiunti alla casella disoccupati? (di Massimo Neri – Responsabile Dipartimento Economia Forza iItalia Giovani Reggio Calabria)
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