Il Direttore Generale della Banca d’Italia, Salvatore Rossi, al Collegio Borromeo di Pavia, individua nella capacità di innovare e nella conoscenza fattori decisivi per il rilancio dell’economia

•       La Guerra dei Sette Anni è quella da cui sta uscendo l’economia italiana. Non una guerra tradizionale, ma una di queste guerre moderne, virtuali, in cui capannoni, uffici, posti di lavoro possono vaporizzarsi con il click di un mouse.Salvatore Rossi

•       Rispetto a sette anni fa: produciamo quasi un decimo in meno, l’industria ha subito una contrazione del 17 per cento, le costruzioni di oltre il 30. Sono stati distrutti all’incirca un milione di posti di lavoro. Le imprese investono un terzo in meno, le famiglie spendono l’8 per cento in meno. Le esportazioni sono a stento rimaste costanti. È aumentata la diseguaglianza fra le imprese e fra le famiglie.

•         Adesso ci sono tutti i presupposti per ripartire. Ma la ripartenza è timorosa, va incoraggiata. Molte imprese sono pronte a investire ma ancora esitano a farlo. Se le loro decisioni saranno rapidamente positive ne discenderà un aumento dell’occupazione e la ritrovata fiducia si trasmetterà anche alle famiglie consumatrici.

•         L’innovazione è centrale per lo sviluppo economico. Negli anni passati, gran parte del sistema produttivo italiano, fatto da molte piccole imprese poco propense alla crescita, ha reagito con lentezza all’opportunità di sfruttare le nuove tecnologie.

•         Il complesso delle imprese italiane mostra un forte divario di capacità innovativa rispetto ad altri sistemi avanzati. In un’indagine effettuata agli inizi della crisi solo il 40 per cento dichiarava di svolgere innovazione di prodotto o di processo; il 64 per cento in Germania. In Italia la spesa totale per attività formale di ricerca e sviluppo nel 2013 era pari all’1,2 per cento del PIL, rispetto al 2,1 della media dell’Unione europea, al 2,9 della Germania.

•         La distribuzione degli investimenti in ricerca e sviluppo è molto concentrata: nel 2013 alle prime tre imprese per livello di spesa faceva capo il 56 per cento della spesa privata totale, a fronte del 39 in Germania.

•         Per sviluppare il capitale umano di un paese non basta più fornire a un nu- mero elevato di studenti un bagaglio di nozioni da applicare in modo standard durante la loro vita lavorativa. È necessario dare “competenza”, cioè capacità di imparare continuamente.

•        C’è un circolo vizioso: il sistema universitario italiano non produce capitale umano adeguato a un’economia moderna e avanzata; ma le imprese che dovrebbero domandarlo non sono quasi mai attrezzate, spesso perché troppo piccole, a riconoscerne i diversi gradi di qualità e ad assegnare loro il prezzo giusto. I livelli stipendiali a stento distinguono fra un neo-laureato di una università italiana di basso livello e un PhD di Harvard.

•        Negli Stati Uniti, secondo dati dell’OCSE, per l’istruzione universitaria di un giovane si spendono in media 23.000 dollari (prezzi del 2011): la famiglia ne mette 15.000, lo Stato 8.000. In Italia l’investimento complessivo è di soli 6.500 dollari: 2.200 a carico della famiglia e 4.300 a carico dello Stato; è il segno di una scelta culturale antica e poco lungimirante.

•         L’impegno della politica economica nel nostro paese deve essere oggi quello di far nascere nuovi imprenditori, convincere gli imprenditori esistenti a far crescere le loro imprese, premiare il coraggio e l’inventiva, disincentivare le rendite di posizione. Un compito che investe il sistema educativo ma anche l’intero ecosistema normativo e istituzionale in cui vivono le imprese produttive.

•         È nelle imprese che si mettono a frutto le conoscenze e le competenze generate nei laboratori e nelle aule, le si trasforma in un flusso continuo di innovazioni, si rilancia l’economia creando posti di lavoro, domanda di beni, redditi, benessere.

•         Spetta alla politica il compito, complesso e gravoso, di fluidificare il circuito conoscenza-innovazione-rilancio economico, rimuovendo ostacoli inutili, fissando i giusti incentivi e disincentivi a tutela di interessi pubblici effettivi, infine assicurando l’equità sociale. Sempre rammentando che senza sviluppo ogni equità è vana.

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