Esclusa la falsa testimonianza della donna nel processo in cui è persona offesa per i maltrattamenti del compagno, denunciato dalla madre: non punibile perché teme per la libertà dell’uomo
Lui la picchia, ma lei lo ama ancora. Ed è la madre della ragazza a denunciare l’uomo, compagno della figlia, per maltrattamenti in famiglia. Solo che al processo lei lo difende, per quanto sia stata presa in cura dai servizi sociali, e si ritrova a sua volta rinviata a giudizio per falsa testimonianza. Ma il fatto non costituisce reato: la donna è ancora innamorata del compagno e scatta l’esimente dell’articolo 384, primo comma, Cp che si applica anche a chi vuole salvare il convivente – e non solo il coniuge – da «un grave e inevitabile» nocumento.
E la ragazza, nel nostro caso, teme per la libertà dell’uomo. È quanto emerge dalla sentenza 8114/24 pubblicata il 23 febbraio 2024 dalla sesta sezione penale della Cassazione. Il ricorso dell’imputata è accolto contro le conclusioni del sostituto procuratore generale, che chiedeva l’inammissibilità: la Suprema corte annulla la condanna senza rinvio. Per questo, spiega ancora il Collegio di legittimità, di cui ha scritto il sito Cassazione.net, rileva Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, il motivo è fondato e, al riguardo, ha ricordato che “È fondata la censura proposta dalla donna sulla mancata applicazione della causa di non punibilità ex articolo 394 Cp; esimente, quest’ultima, che costituisce una “scusante” soggettiva che investe la colpevolezza di chi pone in essere un fatto giuridico, agendo anche con dolo, mentre l’ordinamento si astiene dal rivolgergli un rimprovero perché ci sono peculiari circostanze, come i legami affettivi, che hanno influito sulla volontà del soggetto, tanto che non si può esigere un comportamento alternativo: il legislatore, insomma, ha scelto di non punire i reati considerati dalla norma quando sono stati commessi per salvare la libertà o l’onore di un prossimo congiunto, nozione nella quale rientra anche il convivente”.
Sono gli assistenti sociali a confermare che la donna, con suo figlio minorenne, convive con l’uomo. E quando arriva il provvedimento di allontanamento del partner dalla casa esprime tutto il suo disappunto perché per l’interruzione, seppur momentanea, della coabitazione. Quando poi è sentita come teste nel processo per maltrattamenti a carico del compagno dichiara di esserne ancora innamorata.
Insomma: la Corte d’Appello avrebbe dovuto applicare la causa di non punibilità perché se la donna temeva per la libertà del compagno e avesse raccontato i maltrattamenti subiti lo avrebbe esposto a «un inevitabile pregiudizio».
c.s. – Giovanni D’Agata