Un lavoro appassionato, un contributo serio e coerente che punta attraverso l’ analisi e la riflessione alla rinascita dell’ Italia, anche e soprattutto dopo il covid.
Presentato a Palazzo Alvaro di Reggio Calabria, con un parterre d’ eccezione, il libro “La Repubblica di Arlecchino. Così il regionalismo ha infettato l’Italia”. Al tavolo dei partecipanti, con interventi di ampio respiro, che esaustivamente hanno affrontato tematiche variegate dal sapore filosofico, giuridico, prettamente politico trattate nel libro in questione: Giuseppe Bombino – docente Università Mediterranea; Giuseppe Giarmoleo – Docente Liceo Scientifico Locri; Domenico Nania – già Sottosegretario di Stato; Nicola Malaspina – Centro Studi Tradizione Partecipazione e Italo Palmara – Presidente di Reggio Futura. Moderatrice dell’ incontro la giornalista Emilia Condorelli. Le conclusioni finali sono state affidate all’ autore del libro, Mario Landolfi, ex Ministro delle Comunicazioni.
Di troppa autonomia si può anche morire e così di quest’ Italia, che siamo abituati a vedere divisa per colori nelle carte geografiche, abbiamo imparato a distinguere la Lombardia dalle Marche, la Campania dal Piemonte, ma nessuno avrebbe mai immaginato che la policromia territoriale sarebbe diventata il triste presagio del carnevale permanente durante il quale l’ Italia sfila agghindata nelle pezze di Arlecchino.
Il Carnevale a cui l’ autore fa riferimento è un Carnevale istituzionale, cominciato con la riforma costituzionale del 2001 quando il crescendo di rivendicazioni di competenze e risorse da strappare allo Stato in nome del principio della autonomia territoriale ha esasperato la suggestione infinita delle piccole patrie considerate quasi sopra e oltre la grande patria, lo Stato centrale. La riforma del 2001 ha spianato la strada alla richiesta di autonomia rafforzata da parte di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna che pretendono il riconoscimento di ulteriori competenze esclusive e ovviamente di nuove risorse.
Le tre Regioni hanno bilanci in ordine ed erogano servizi efficaci e pertanto chiedono di trattenere più residuo fiscale come premio per la loro capacità di governo. Non ci sarebbe nulla di male se il fondo residuale servisse a tenere in scia anche le regioni più svantaggiate. In realtà il risultato dell’autonomia rafforzata è fin troppo scontato: chi starà bene starà meglio, chi sta male starà peggio. Non è un caso se l’ economista Gianfranco Viesti l’ ha etichettata la secessione dei ricchi. La trattativa tra governo e governatori delle tre Regioni era in corso quando il confronto si è fermato a causa del coronavirus.
La vicenda del “morbo alieno” che ha flagellato l’ Italia, non meno del resto dell’ Europa e di altre aree del pianeta, ha messo in luce quanto male fa al Paese la disunione nel quale si è venuto a trovare, anno dopo anno, per il tramite di richieste sempre più esose delle Regioni che hanno reso impotente – e non poco – lo Stato, limitato nel suo potere ordinatorio e decisorio e di fatto surrogato da staterelli arlecchineschi che lo hanno equiparato a se’ stessi, lasciandogli una parvenza di potere di rappresentanza dell’ unità nazionale e di coordinamento di attività rilevanti quali difesa, politica estera, tesoro e fisco.
Il resto lo gestiscono gli staterelli post unitari spesso anche utilizzando in eccesso le loro competenze e implementando il ricorso alla Corte Costituzionale per dirimere controversie su leggi impugnate. Ed è proprio quando le nuvole nere si addensano all’ orizzonte che il disordine politico istituzionale si manifesta in tutta la sua evidenza sotto forma di decretazione d’ urgenza o addirittura di decreti emanati dal Presidente del Consiglio, usurpando prerogative parlamentari, bypassando passaggi e dibattiti, minacciando la richiesta di un voto di fiducia.
Ma se uno Stato è disfatto non si comprende bene di quale sovranità si debbano appropriare le regioni. E senza sovranità i popoli sono facilmente assoggettabili, come la storia dimostra. Se non si torna a rivalutare una visone di uno Stato posto al centro del sistema, se identità, spirito nazionale e memoria non tornano ad essere i pilastri di concezioni politiche dalle quali dovrebbero scaturire programmi a lunga scadenza, se non si affronta presto la problematica della ricostruzione di una nazione disfatta, logorata da conflitti, irriconoscibile culturalmente, l’Italia è destinata a morire. Perché questo non accada ci sarebbe bisogno di classi politiche generose con il popolo e rigorose con se stesse.
Miriam Sgrò