Colpevole il manager che terrorizza gli iscritti di una sigla sindacale. L’efficienza in azienda non si può raggiungere con umiliando i dipendenti
Stavolta non è il solito ex fidanzato fuori di testa a essere condannato per il reato ex articolo 612 bis Cp. È stalking aggravato il mobbing del datore. Condannato per atti persecutori il manager che vessa i dipendenti con contestazioni disciplinari pretestuose, creando un clima di terrore in azienda: «l’efficienza» nella produzione «non può essere raggiunta attraverso l’umiliazione dei dipendenti». E l’aggravante scatta per l’abuso di autorità da parte del superiore. Affinché si configuri lo stalking sul lavoro, d’altronde, è sufficiente il dolo generico: non risulta dunque necessario che le condotte di minaccia e di molestia siano dirette a un fine specifico, ma deve ritenersi sufficiente che determinino nelle vittime ansia, paura o un mutamento delle abitudini di vita. È quanto emerge dalla sentenza 12827/22, pubblicata il 5 aprile dalla quinta sezione penale della Cassazione.
Diventa definitiva la condanna inflitta al presidente della società di servizi controllata dal Comune: la pena è sospesa, ma l’imputato dovrà risarcire in separata sede i cinque lavoratori costituitisi parte civile. Lo stalking è aggravato ex articolo 61, numero 11, Cp perché il dirigente è titolare di una posizione di supremazia sulle persone offese: fioccano le minacce di licenziamento e i provvedimenti disciplinari, rivelatisi ingiustificati; un’escalation, insomma, che poi culmina effettivamente in un provvedimento espulsivo che crea il panico in azienda.Non giova alla difesa dell’imputato dedurre che il clima di tensione sarebbe sorto per il braccio di ferro ingaggiato con una sigla sindacale: il tutto nell’ambito della ristrutturazione produttiva e delle trasformazioni organizzative che il dirigente si sta sforzando di portare a termine nella società in house. Il pugno di ferro sarebbe rivolto contro lavoratori che disattendono direttive e ignorano ordini di servizio. Il punto è che il presidente non va per il sottile, anzi: sottopone i dipendenti a «rimproveri pubblici» quanto «inutilmente mortificanti». Di più: li sfida allo scontro fisico e promette più volte alle persone offese di «cementarle» in un pilastro, anche se le minacce sono assorbite nello stalking e per l’accusa di lesione personale scatta l’assoluzione perché il fatto non sussiste. Per i giudici di legittimità, infatti, di cui ha scritto il sito Cassazione.net, rileva Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, il motivo è fondato e, al riguardo, hanno ricordato che “Nessun dubbio che integri il delitto di atti persecutori il mobbing posto in essere dal datore con una condotta che esprime ostilità verso il lavoratore per mortificarlo o isolarlo in azienda, a patto che vi sia una lesione alla libera autodeterminazione della vittima.” Lo stalking scatta con la mera volontà del superiore di «attuare reiterate condotte di minaccia e molestia» nella consapevolezza che le azioni determinano uno degli effetti alternativamente previsti dall’articolo 612 bis Cp, dunque paura, ansia o cambiamento delle abitudini di vita. E l’efficienza in azienda? «La tutela della persona deve in ogni caso prevalere sugli interessi economici».
Comunicato Stampa – Sportello dei Diritti