I Gioielli di famiglia di Reggio. Su cosa puntare per uscire dal tunnel

Riceviamo e Pubblichiamo

Forse qualcuno si chiederà: ma cosa c’entrano i gioielli di famiglia con la politica o con l’amministrazione di una città? I gioielli di famiglia, come sappiamo, sono i più ambiti, e anche la letteratura, la favolistica e la filmografia se ne sono occupate. Sono quelli che in una eredità vengono contesi non tanto o non solo per il loro valore materiale, ma per quello affettivo. Tante volte abbiamo letto o visto di anelli che passano dalla madre alla figlia e alla figlia della figlia. Sono parte della storia, della memoria, della vita di quelle comunità in piccolo che sono i nuclei familiari. È proprio per questo che bisogna prendersene cura. Bisogna custodirli, conservarli, fare in modo che la loro integrità venga preservata dagli assalti del tempo e, ovviamente, delle persone che non li hanno a cuore.

foto di RS

Come le famiglie, anche le comunità più grandi hanno i loro gioielli: l’Umanità, nel suo complesso, e non è un caso che esista un organismo, l’Unesco, che si occupa del patrimonio materiale e immateriale di tutto il mondo. E via via, scalando di dimensioni ma non d’importanza, andando a considerare le nazioni e i comuni, grandi e piccoli, tutte le collettività di uomini hanno i loro gioielli, Per comodità lessicale continuiamo a chiamarli di famiglia, ma se ci pensate non solo per quello. Usiamo questa locuzione in quanto hanno lo stesso valore, in termini di affetto, storia, memoria, senso di appartenenza, per le comunità che li possiedono, dei gioielli di famiglia. Io ne ho sentito parlare per la prima volta, a proposito di una città, dal sindaco di Torino Chiamparino.

Tempo fa ho letto l’ultimo libro di Vittorio Daniele, professore di economia dell’Università di Catanzaro. Si intitola “Il Paese diviso – Nord e Sud nella storia d’Italia. Non è il primo che Daniele dedica all’argomento, ma è certamente il più illuminante. Dice Daniele che, nell’indagare sulle cause del ritardo del Mezzogiorno rispetto al Nord d’Italia, “le spiegazioni politiche e sociali hanno prevalso – e prevalgono ancora – su quelle che, invece, insistono sul ruolo dei fattori economici. Non c’è dubbio, continua, che anche cause politiche e sociali concorrano a determinare lo sviluppo delle regioni o delle nazioni” ma esso dipende innanzitutto “dalle forze economiche che, rendendo più conveniente la localizzazione delle imprese in alcune aree rispetto ad altre, danno origine a una geografia economica diseguale. La distanza dai mercati, le tecnologie produttive e i costi del trasporto sono tra le principali forze che, interagendo in modo diverso nelle varie epoche, influenzano la distribuzione delle attività economiche e della popolazione nello spazio geografico”. In Italia è successo quello che è successo dappertutto, conclude Daniele, secondo il quale lo sviluppo diseguale è dipeso, in parte, dall’operare delle forze di mercato che, per la peculiare geografia dell’Italia, favorirono l’integrazione del Settentrione con le aree più industrializzate d’Europa, mentre il Meridione, periferico geograficamente, lo divenne anche dal punto di vista economico.

Gli economisti individuano un’area, che va dall’Inghilterra alla pianura Padana, in cui sono concentrate le maggiori attività produttive. L’hanno battezzata “Blue banana”, in quanto è ciò che ci appare se guardiamo un’immagine notturna dell’Europa ripresa da un satellite artificiale. Noi, com’è chiaro, siamo lontanissimi dalla banana.

Il libro continua scorrendo, una per una, tutte le motivazioni fornite nel corso del tempo per spiegare il divario – storiche, politiche, culturali – e anche quelle fatte proprie dai leghisti per tanti anni, le più offensive, ridicole e più che scientifiche basate sul pregiudizio: pseudo antropologiche-genetiche-caratteriali.

foto di GNS

Leggendo il libro, con soddisfatto stupore ho rilevato che aveva a che fare con la mia tesi di laurea in Scienze politiche – indirizzo economico, intitolata Il ruolo dell’ambiente nello sviluppo economico – Il caso della Calabria. Su input del compianto professore di Politica economica e industriale, Francesco Latella, il lavoro indagava un fenomeno economico che si manifestava da qualche anno, quello dei distretti industriali. Ma per arrivare alle ragioni della nascita dei distretti bisognava partire da quelle che determinavano, e determinano, la localizzazione industriale. Tanti economisti che si sono occupati dell’argomento – von Thunen, Weber, non il più famoso Max ma il fratello Alfred, Hoover – e Alfred Marshall, il più importante tra loro, secondo il quale l’ubicazione delle industrie in determinati luoghi è stata causata dalle condizioni fisiche, come la natura del clima e del suolo, l’esistenza di miniere e di cave nelle vicinanze, o il facile accesso per via di terra o di acqua. Il meccanismo virtuoso che si innesta porta poi all’affermarsi di una “atmosfera industriale” mediante la quale il tessuto produttivo si allarga e si espande, passo dopo passo, alle aree vicine.

Nel 1984, quando scrivevo la tesi, tra gli economisti, che vedevano segni di vivacità economica trainata dalle piccole imprese nelle Marche, in Abruzzo, in Puglia, si stava facendo strada l’idea che tale processo, se adeguatamente stimolato con la infrastrutturazione, fisica e tecnologica, del territorio, si potesse espandere e arrivare anche nelle altre regioni del Mezzogiorno, ponendo fine all’epoca delle c.d. cattedrali nel deserto. La tesi si chiudeva appunto con la speranza che le istituzioni, locali e nazionali, facessero la loro parte per creare le pre – condizioni per lo sviluppo, senza le quali la perifericità della nostra regione sarebbe rimasta tale o si sarebbe aggravata.

Come sono andate le cose lo sappiamo, e conosciamo le nostre condizioni attuali. Ma come se ne potrebbe uscire?

Torniamo per un attimo a Vittorio Daniele. Egli conclude la sua pubblicazione col seguente brano: “ in tempi di globalizzazione, il Mezzogiorno non può competere facendo leva sul costo del lavoro o sulla tassazione per attrarre investimenti dall’esterno…gli sgravi non sono compatibili con la normativa sulla concorrenza …e non sarebbero in ogni caso comparabili ai vantaggi di costo offerti dalle nazioni meno sviluppate…Il vantaggio competitivo di una regione non deriva però solo dai minori costi di produzione, ma anche da altri fattori”. E qui il passaggio più importante: “i fattori non riproducibili in altre aree, perché legati alla geografia e alla storia. Da questi dipendono l’attrattiva turistica e la QUALITÀ delle produzioni agroalimentari che con la globalizzazione trovano nuovi mercati. Nel mezzogiorno la geografia offre poi opportunità nelle fonti energetiche rinnovabili o nella logica portuale….Anche le tecnologie informatiche – il cui fattore decisivo è la conoscenza – offrono opportunità perché slegate da vincoli geografici o organizzativi.

Ora abbiamo tutti gli elementi necessari per il nostro ragionamento. Cosa ci manca, cosa abbiamo, cosa abbiamo potenzialmente ma dobbiamo valorizzare. Abbiamo visto perché il settore secondario non si è sviluppato: lontananza dai mercati, mancanza di materie prime, ecc. Abbiamo visto che le teorie degli anni 70 e 80 si sono rivelate illusioni: il tessuto produttivo, lungi dall’espandersi verso sud, si è arrestato alle sue porte. I distretti, da noi, non sono mai nati. E’ arrivato perciò il momento di concentrarci su ciò di cui siamo ricchi, che possediamo solo noi o possediamo più degli altri. Sui nostri gioielli di famiglia, appunto, che sono beni materiali e immateriali, diffusi o concentrati.

foto di GNS

Il clima, il vento e il sole, il mare, la montagna, il paesaggio, i siti archeologici, il patrimonio abitativo in eccedenza, lo Stretto di Messina, una vasta area metropolitana collegabile senza buttare altro cemento e altro danaro per opere faraoniche, l’Università, le tante frazioni collinari, la lingua greco – calabra. Noi abbiamo tutto quello che ci serve, a maggior ragione oggi. Trasformiamo il problema in opportunità, approfittiamo del modello di vita che tutto il mondo deve adottare, basato sulla sostenibilità, sulle distanze, sullo stare all’aperto, sul lavoro da remoto. Iniziamo col rendere bella la nostra città. Manuteniamo con costanza strade, piazze, monumenti, verde pubblico. La nostra Reggio è come una casa con la tapparella rotta che sta su legando la corda, dove salta la piastrella e ci si dimentica di sostituirla. Una casa trascurata, in preda all’abbandono, nella quale, perciò, ognuno dei suoi inquilini comincia a non amarla e non amandola la trascura a sua volta. La tratta male. Salvo poi dover ricorrere, alla fine, a interventi costosi per rimettere le cose a posto, sapendo che dal giorno successivo ricomincerà il declino, e così all’infinito. E nel frattempo, quel luogo è stato per lunghissimi periodi un posto brutto, sciatto, nel quale ci si sta a malincuore. E se i suoi abitanti non amano la propria casa, non amano viverci, come possono pretendere che gli estranei abbiano voglia di vederla, di frequentarla?

Questo è il primo passo per rendere Reggio un posto bello, da visitare, magari dove tornare o cominciare una nuova vita. Andiamo avanti col lavoro sulle millanta incompiute. Chiudiamo i cantieri, realizziamo non il tunnel nello Stretto ma quello dei servizi, dove convogliare tutto ciò che sta sotto le nostre strade, evitando questa continua teoria di scavi, di barriere bianche e rosse, fonte di sprechi, di disordine, di senso di precarietà. Piantiamo alberi, il primo elemento di arredo di un centro urbano. Piantiamoli dappertutto. Se ne avvantaggerebbe anche il microclima, rendendo meno afose le stagioni estive e meno necessari i condizionatori.

Costruiamo “Reggio città aperta”. Una città, cioè, che vive all’aperto. Dove, per tutte le attività per cui ciò è possibile, stare fuori è la regola, e non l’eccezione causata da una pandemia. Reggio, che diviene più bella e accogliente giorno dopo giorno, potrà così iniziare il suo percorso per diventare città turistica. Nei fatti, e non a parole e per slogan.

E per una città turistica sul mare, con uno dei paesaggi più incantevoli al mondo, la condicio sine qua non è la balneabilità delle acque, da Spontone a Bocale 2°. Bisogna mettersi di buona lena, impegnarsi per la depurazione utilizzando le risorse già disponibili e quelle che verranno dall’Europa.

Poi mettiamo a frutto le bellezze che abbracciano la nostra città, a monte e oltre lo Stretto, fino alle Eolie. Acceleriamo la realizzazione del collegamento veloce con la montagna, tanto da poter aspirare a ospitare in città gli appassionati della montagna e delle attività, sportive e non, invernali e non, a essa collegate. Mettiamo in rete, con portali unici, trasporti coordinati e veloci, Reggio e la Sicilia e le Eolie, in modo da mettere in piedi, finalmente, un’area integrata dove stare, progettare, realizzare insieme sia conveniente per tutti gli attori in campo. Chi decide di trascorrere del tempo a Reggio deve sapere che, grazie alla sua centralità, da qui è possibile spostarsi agevolmente per godere delle bellezze incomparabili che vi stanno intorno.

Sfruttiamo il patrimonio abitativo in eccesso. Creiamo un soggetto – ufficio, agenzia, chiamiamolo come vogliamo – che censisca questa enorme ricchezza inutilizzata e agisca per stimolare l’incontro tra chi ha un bene che non usa e chi non ha una casa, fermando il consumo di suolo e i ghetti che inesorabilmente prosperano dentro e nei pressi degli alloggi popolari pubblici.

foto di GNS

Lo stesso patrimonio può essere usato per fini turistici, o pure per attirare persone stanche delle metropoli, in cerca di luoghi più a misura d’uomo. I piccoli centri compresi nel comune di Reggio sono una miniera, da questo punto di vista. Reggio non è solo la via marina e il corso Garibaldi, anche se già dentro il perimetro centrale della città sono migliaia gli alloggi vuoti e le saracinesche abbassate. Reggio va riabitata tutta, ma quanto varrebbe, anche in termini di tutela del territorio, il ripopolamento delle aree interne! Da Schindilifà a Podargoni a San Giovanni di Sambatello a Villa San Giuseppe, e via dicendo, un numero enorme di edifici sta perdendo valore, anno dopo anno, diventando anche un problema per la pubblica incolumità. Elaboriamo un progetto serio, lungimirante, per offrire ospitalità, temporanea o definitiva, a chi ha la sede di lavoro, per esempio, a Milano o a Roma, ma può operare da remoto, anche per lunghi periodi durante l’anno. Quale enorme indotto si metterebbe in moto, quante risorse sarebbero risparmiate, dal privato e dal pubblico, se le nostre case fossero riabitate e se fosse data, ai tanti giovani che si stanno riaccostando all’agricoltura, la possibilità di abbinare alla casa un pezzo di terra da coltivare, un pezzo di bosco da sfruttare e manutenere? E perché non pensare a prodotti dell’agricoltura biologici da distribuire sul territorio a chi li trasforma e a chi li consuma, prodotti a km 0, per puntare sulla qualità, considerato che sulla quantità la partita con la catena alimentare basata sull’industria è persa in partenza? Opere costose e inutili servono a ingrassare chi ha già distrutto uno dei nostri gioielli di famiglia: la nostra natura spettacolosa.

Reggio ha decine di ettari di demanio pubblico abbandonato a sé stesso. Ha boschi che gli incendi si stanno mangiando a ritmi impressionanti, accelerando un processo di desertificazione ormai in fase avanzata. La distruzione dell’ambiente si può arrestare solo ripopolando il territorio, costruendo muri a secco invece di muri di cemento, regimentando le acque solo se necessario e con metodi rispettosi della natura, curando il sottobosco.

E’ sempre MANUTENZIONE la parola magica. Ma abbiamo ancora molto altro da offrire a chi viene dalle nostre parti.

Innanzitutto un patrimonio archeologico di primo piano, in città e nelle immediate vicinanze. Accanto a un museo zeppo di tesori per la cui valorizzazione c’è ancora molto da fare, ci sono decine di siti che forse neanche noi stessi conosciamo. Quanti di noi sanno dell’Odeion di via XXIV Maggio? Quanti di noi sono andati a godere del panorama mozzafiato dal castello di San Niceto, a 15 km dal centro città? E’ anche questo che ci differenzia da altri posti molto più rinomati, e che ci rende unici.

foto di GNS

E quanti di noi conoscono la ricchezza del mondo grecofono e bizantino? L’interesse attorno a questo che è il nostro mondo e le nostre radici è in crescita, soprattutto per ragazze e ragazzi che arrivano dai territori della Grecia moderna, da Creta e da Cipro, anche. Bisogna spingere maggiormente su questo acceleratore, proprio per il principio che regge tutto il mio ragionamento: nessuno ha una lingua minoritaria che resiste da 2000 anni a ogni sorta di cambiamento. Nessuno. E allora dobbiamo, e non soltanto per l’aspetto economico – turistico della faccenda, pensare a un progetto complessivo da dedicare a questo tema. Questa unicità deve uscire dalla ristretta cerchia degli appassionati, i quali hanno il merito enorme di essere riusciti a tenere accesa la fiammella della grecità calabrese. Bisogna lavorarci alacremente su questo gioiello di inestimabile valore.

E infine, il sole e il vento, per puntare sull’autosufficienza energetica, e poi anche sulla possibilità di vendere l’energia in surplus. La tecnologia, in questo campo, sta facendo passi da gigante. Gli strumenti per catturare energia dal sole e dal vento sono sempre meno invasivi e sempre più potenti. Ma per non vedersi rifilare tecnologie obsolete bisogna avere una prima caratteristica, anzi: una pre – condizione, imprescindibile: non essere ricattabili, non avere interessi personali. Un altro elemento necessario è l’intervento di soggetti esperti, fuori dai soliti circuiti, esperti veri, utili a dare contributi non reperibili dentro la macchina burocratica.

Ecco il significato dell’espressione “Gioielli di famiglia”. Per riuscire a tutelarli, conservarli, difenderli, valorizzarli, questi gioielli bisogna amarli.

Nino Mallamaci

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