«Povera patria/schiacciata dagli abusi del potere/di gente infame, che non sa cos’è il pudore/si credono potenti e gli va bene quello che fanno/E tutto gli appartiene»
Così cantava Franco Battiato, passato a miglior vita pochi giorni fa ma rimasto tra noi con il suo patrimonio di versi, note e, soprattutto, con l’eredità di un pensiero profondo, racchiuso in canzoni, ritratto impietoso di un’epoca in cui alla cultura si predilige il disinteresse, mentre abbandono e decadenza prevalgono su merito e qualità. Era siciliano, Battiato, come Andrea Camilleri, scrittore che ha contribuito, al pari del cantautore catanese, a far conoscere l’anima vera della Sicilia, veicolandone ovunque persino la lingua e raccontando, attraverso il Commissario Montalbano ed una miriade di altri romanzi, le mafie e il male ed il loro squallore, senza scadere nel sensazionalismo da operetta che negli anni ha contribuito a creare stereotipi offensivi, dietro i quali l’anticulturamafiosa ha continuato a prosperare. Un inganno perpetrato anche assumendo sembianze pseudoreligiose, fino a quando il riconoscimento dei martìri di padre Pino Puglisi e del giudice Rosario Angelo Livatino, essi pure sicilianissimi, ha squarciato il velo delle apparenze e dell’ipocrisia, separando il grano dalla zizzania: la mafia è apologia del male e del potere, che nulla ha a che vedere con il Vangelo di cui è anzi negazione, nonostante l’ostentata devozione a santi e madonne, custoditi finanche nei covi usati nei periodi di latitanza ma in realtà esibiti solo per conseguire consenso sociale e dimostrarsi più forti di ogni cosa, al di là di ogni legge umana e morale.
Non era così, non è così. Ed è un bene che la dimostrazione sia venuta proprio dalla Sicilia e dai siciliani. Storie diverse, di persone le cui vicende terrene si sono intrecciate senza mai toccarsi, che nella loro originalità – condivisa con quella di tanti altri che a questo percorso hanno dato linfa e vitalità, spesso al prezzo della propria vita – hanno portato alla maturazione di una consapevolezza nuova, in cui non v’è posto per gli abusi del potere, per l’ignoranza del pudore di chi si crede invincibile e ritiene senza fondamento di continuare a farequello che gli pare.
C’è, alla base, una lezione grande, che Fedor Dostoevskij sintetizzava in poche parole, pronunciate dal protagonista del romanzo L’idiota: «La bellezza salverà il mondo». Concetto poi piegato a mille banalità, ma che non perde di forza: il bello autentico è anelito alla giustizia, al futuro, alla pace, all’amore. Dunque, per molti versi, alla fede, come appare evidente se sol si considera che ad ispirare lo scrittore russo nel dare forma e sostanza alla figura del suo Myškinfu un dipinto, il Corpo di Cristo morto nella tomba, raffigurato dal pittore tedesco Hans Holbein nel 1521. E se pure – come argomentano i più realisti del re – in un mondo crudele, piegato al consumo e imprigionato nelle logiche dell’utilitarismo, la bellezza non dovesse rivelarsi salvifica, sarà comunque d’aiuto ad emancipare dalle passioni basse e dagli istinti volgari, spingendo l’uomo (specie in questo tempo di pandemia), secondo l’invito di Charles Baudelaire, «a discendere l’Ignoto nel trovarvi nel fondo, infine, il nuovo».