Si tratta di una prima mondiale. Il Parlamento schierato con le emittenti e gli editori, affermando che gli introiti pubblicitari in spazi come i giornali cartacei sono crollati del 75% dal 2005. I colossi dovranno concordare i pagamenti con editori ed emittenti
Google e Facebook si preparano alla resa dei conti con gli editori australiani sul codice di contrattazione dei media. L’Australia costringerà le Big Tech a pagare i suoi media per pubblicare contenuti di notizie al fine di proteggere il giornalismo indipendente. Si tratta del primo paese al mondo ad attuare una misura del genere. In base alla legge che sarà presentata al Parlamento mercoledì, le aziende Facebook e Google Big Tech dovranno concordare i pagamenti per i contenuti che appaiono sulle loro piattaforme con editori ed emittenti locali. Nei casi in cui non si riesca a trovare un accordo, a decidere sarà un arbitro nominato dal governo australiano che prenderà una decisione per loro. «Questa è una riforma enorme e una prima mondiale. Tutti guardano all’Australia», ha detto il ministro del Tesoro Josh Frydenberg parlando con i giornalisti a Canberra. «La nostra legislazione contribuirà a garantire che le regole del mondo digitale rispecchino le regole del mondo reale e sosterranno il nostro settore dei media», ha sottolineato. Il codice di contrattazione obbligatorio, evidenzia Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”. è il risultato di molti anni di reclami da parte dei media tradizionali secondo cui le piattaforme di social media beneficiano dell’inserimento di notizie giornalistiche senza pagare un centesimo per questo. Google e Facebook hanno a lungo sostenuto in risposta che le organizzazioni dei media stanno trascurando il vantaggio che traggono dai riferimenti e dai clic sui loro siti web. Ma il ministro del Tesoro, Josh Frydenberg, si schiera con le emittenti e gli editori, affermando che gli introiti pubblicitari in spazi come i giornali cartacei sono crollati del 75% dal 2005. “Per ogni 100 dollari di spesa pubblicitaria online, 53 vanno a Google, 28 vanno a Facebook e 19 vanno ad altri partecipanti”, ha infine chiarito Frydenberg.
c.s. – Sportello dei Diritti