«Amo le persone miti perché sono quelle che rendono più abitabile questo mondo»
Sale ogni giorno il conteggio delle vittime e dei feriti (nel corpo e nello spirito) della pandemia. Parlare di mitezza, richiamando il pensiero di Norberto Bobbio, potrebbe apparire fuori luogo, quasi uno svago filosofico di fronte ad un’umanità sofferente, che con collera si chiede dove sia finito Dio. Le cifre, del resto, sono crude e non solo quelle dei decessi: la Covid-19, dicono le statistiche, ha provocato disturbi psicologici nel 65% degli italiani, a causa dell’insonnia, della mancanza di energia, della tristezza, dell’ansia e del pianto. Neppure è mancata la difficoltà a parlarne a familiari ed amici. Insomma, è emersa una fragilità di cui -poi- ci si vergogna. Si, ci siamo riscoperti fragili: sospesi in un eterno presente, abbiamo già scordato il popolo che siamo stati, quello che in primavera osservava le regole e maturava la piena coscienza degli altri, della loro assenza, della loro necessità. Era solo qualche mese fa. Si intuiva che non tutto sarebbe andato bene e non che ci si sarebbe ritrovati avvolti in un’atmosfera di irrazionalità e terrore. Invece, niente e nessuno pare in grado di indicare la strada, di disegnare scenari di convivenza. Eppure, quasi persi nella solitudine della pandemia, vale forse la pena di trasformare il silenzio in spazio di riflessione e rileggere, magari, qualche pagina de La peste, di Albert Camus, per comprendere come proprio quando tutto sembra precipitare emerga il problema del senso, il significato della vita. La peste (come la pandemia) significa terrore, esilio e separazione. Giacché come ogni male, divide gli uomini e li consegna alla paura, li priva degli affetti e li lascia soli davanti alla morte, anche nell’estremo congedo. In questo contesto, Camus, da non credente, tratteggia l’esistenza di una sorta di religiosità terrena, improntata al culto della ricchezza, secondo uno stile di vita che esige efficienza, prontezza, risolutezza. Richiede, insomma, «la buona salute. E un malato vi si trova solo». Però nel dilagare dell’epidemia, ci si interroga sulla possibilità di essere santi senza Dio giungendo ad una conclusione diversa. Lo testimonia la madre del protagonista del romanzo, che si ritrova al capezzale del figlio in fin di vita. Una donna dal volto dolce, «in cui si leggeva tanta bontà, più forte della peste». Dai suoi umili gesti vien fuori la forza di un amore disinteressato che rassicura, regala pace, consola e accompagna, nel momento stesso in cui anche la speranza sta per svanire. È l’immagine della grazia, l’icona di un amore trascendente che tocca il cuore dell’uomo. È l’emblema di una madre che è Madre, lo squarcio attraverso cui penetra il mistero della grazia. È la manifestazione di una presenza che rassicura, di un Dio che si fa prossimo all’uomo con una carezza, un abbraccio, una parola di conforto. Convinciamoci, «sono le virtù umane della mitezza e della tenerezza: che sembrano piccole, ma sono capaci di superare i conflitti più difficili».
+ Vincenzo Bertolone