«Dio in Cristo ci salva non in virtù della sua onnipotenza bensì della sua impotenza»
Lo scriveva il teologo Dietrich Bonhoeffer mentre si trovava nel lager nazista in cui trovò una morte da martire. Nelle sue parole, c’è l’immagine di un Dio che si fa intimo e vicino all’uomo e ne condivide la condizione di vulnerabilità, quella che, al contrario, l’uomo ha perduto. Con la pandemia che ha cambiato le nostre vite, scalfendo la corazza dell’invincibilità, ci siamo scoperti fragili, precari, esposti ai rischi e privi di quella invincibilità di cui ognuno, in fondo, pensava di poter godere, anche grazie ai prodigiosi progressi della tecnologia. Improvvisamente, però, un minuscolo virus ha posto l’umanità di fronte allo specchio, costringendola a fare di conto con la propria essenza e impedendole di continuare a barare. La pandemia ha acuito la sensibilità, ha esasperato le reazioni. In altri termini, tra paura e disperazione, ci ha restituito il senso della nostra vulnerabilità. Un male? Un ulteriore elemento di debolezza? Affatto: accettare la vulnerabilità vuol dire crescere. Essere vulnerabili vuol dire vivere la vita nella sua autenticità, apprezzarne il valore, difenderne le basi. Schiudendoci i cuori la vulnerabilità ci denuda, ci fa essere sinceri perché possiede la capacità di esposizione all’altro, rinuncia al controllo, desiderio di apertura all’altro. Dunque, è un valore aggiunto, e sarebbe utile tenere sempre ben stretto a sé il senso di fragilità che in questi giorni ci pervade. Come fosse un dono, un’opportunità, un’occasione, di fronte all’individualismo, all’arroganza ed al cinismo sin qui dominanti. Questi (falsi) miti, come dimostra la sfiorita stagione dei canti ai balconi, nell’illusione del “tutto andrà bene”, non scompariranno neppure con la pandemia, ma c’è da augurarsi che essa rinforzi, almeno, la speranza di poter avere un futuro diverso da quello che l’umanità s’era sin qui costruito coi suoi comportamenti.
Guardando a quell’orizzonte, siamo invitati a navigare con coraggio nel tempo presente, sempre più simile ad un mare apparentemente tempestoso, in realtà colmo di epifanie di fede e luce. Bisogna tuttavia attrezzarsi per questo viaggio, ritrovando la purezza di mente e di cuore e la libertà, rifuggendo dagli stereotipi, riconquistando la capacità di stupirsi perché, come ammoniva già Chesterton, «il nostro mondo non perirà certo per mancanza di meraviglie, bensì di meraviglia». E quando si muovono i passi su questo terreno, c’è una figura sorprendente che si muove incontro all’uomo impaurito. È proprio quel Dio vulnerabile che si rivela nella sofferenza e nella morte di Cristo, terribilmente umano e meravigliosamente divino, risorto ma ancora con le piaghe della passione. È la ragione della vita, la spiegazione di ciò che spesso sfugge, la vera forza. È il senso delle paradossali parole dell’Apostolo Paolo: «Quando sono debole, è allora che sono forte».
+Vincenzo Bertolone