Una città misurata post covid-19

«D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda» (Dialogo tra Marco Polo e Kublai Khan sul tema della città – Italo Calvino, Le città invisibili, 1972)

di Antonella Postorino – Stiamo vivendo un momento di transizione. Il pericolo non è ancora passato, il virus convive con noi, non lo vediamo ma c’è. Questo è il momento per iniziare a pensare a come i nostri luoghi dell’abitare dovranno accogliere i nostri nuovi stili di vita, quindi occorre fare una riflessione per comprendere quale dovrà essere il nostro ruolo nell’immediato futuro. Dopo i medici in prima linea dovranno scendere in campo tante altre professionalità, ognuna con le sue competenze, ma ciò che serve per poter sconfiggere il “male” è una potente rivoluzione culturale. Iniziamo a guardarci indietro, per prendere dalla storia, quanto di positivo ha fatto chi ci ha preceduti, chi ha dato vita agli input normativi che regolano la nostra quotidianità, sarà da quegli enunciati che la nostra società dovrà ripartire, ma con una visione proiettata in avanti, nella quale le nuove tecnologie dovranno affiancarsi al nostro bisogno di nuovi “spazi”.

Un po’ di storia

Cammino Notturno di Marco Barone

È noto che fin dalle origini il disegno delle città si è compiuto per sostenere equilibri e relazioni tra modus vivendi e spazi collettivi. Ciò nonostante, l’evoluzione dell’abitare, dalla seconda metà del Novecento, si è manifestata più dinamica rispetto al mutamento degli stili di vita, basti pensare a come le innovazioni tecnologiche siano riuscite ad insinuarsi nella quotidianità di ogni individuo, ancor prima che questo fosse pronto ad accoglierle, trasformando, repentinamente, i suoi spazi domestici e relazionali. Diversamente è andata le volte in cui i cambiamenti sono stati indotti da fenomeni “non calcolati” (catastrofi, guerre e pandemie) in seguito ai quali, le grandi trasformazioni urbane sono giunte in soccorso alle popolazioni, quasi sempre sostenute dalla lucida presa di coscienza che “niente sarebbe stato come prima”. La storia ci insegna che non esiste crisi che non abbia lasciato traccia sul territorio. Episodi ciclici di epidemie e pandemie – dalla peste di Giustiniano (541 d.C.) alla Spagnola (1918), fino alle più recenti, dall’Asiatica (1957) alla Suina (2009) – hanno inciso sulla società in cui sono apparse, provocando fenomeni migratori, trasformando sistemi economico/produttivi, determinando crisi politiche e religiose, incidendo persino sugli equilibri ambientali del nostro pianeta, soprattutto, dettando le regole per il ridimensionamento di territori, città e comparti urbani.

Il legame tra ambiente costruito e diffusione delle malattie era già noto nel 400 a.C., quando Ippocrate suggerì misure di distanziamento dai luoghi affollati per evitare che gli ambienti malsani potessero favorire la propagazione di malattie infettive.  In un quadro di profondi mutamenti del paesaggio fisico e sociale, si presenta esplicativa la disamina di alcuni episodi utili a farci comprendere che il problema post pandemia non è cosa dei giorni nostri.  Quando la Peste Nera, diffusasi in Europa nel 1346, alterò radicalmente molti aspetti della vita quotidiana, sfamare la popolazione e garantire il diritto alla salute, divennero le ragioni attorno alle quali intervenire con urgenza, così vennero introdotti repentini cambiamenti nel settore agricolo, per sostenere la produzione di beni di prima necessità, e gli edifici monastici diventarono strutture di assistenza sanitaria. In campo normativo, dopo aver sperimentato in varie epoche l’isolamento come prima procedura per arginare le epidemie, nel 1468, fu il governo veneziano che rese cogente il concetto di “quarantena”, imponendo che le navi, restassero ormeggiate nell’isola del Lazzaretto Nuovo, per un periodo, appunto, di quaranta giorni. A metà Ottocento, quando la crescita demografica e lo sviluppo industriale segnarono l’inizio di un processo di inurbamento senza precedenti, vennero definite quelle linee disciplinari che diedero vita alla moderna scienza urbanistica, con l’obiettivo di “sanare” il rapporto tra città e popolazione.  Furono tante le iniziative e le idee messe in campo, nacquero le prime normative urbanistiche e si sviluppò il pensiero utopistico delle Città Ideali (Robert Owen, Charles Fourier, Etienne Cabet, Arturo Soria Y Mata, ecc.). Nel 1850 a Londra, in seguito al Colera, il primo intervento a carattere infrastrutturale riguardò l’allargamento delle strade e lo sviluppo delle condotte fognarie. Negli stessi anni, l’architetto Frederick Law Olmsted, ex ufficiale sanitario statunitense, propose la realizzazione del Central Park a New York, convinto che il polmone verde potesse rendere la città più salubre. Nel corso del XIX e del XX secolo, la maggior parte dei progetti proposti dagli architetti di tutto il mondo, tra questi Le Corbusier e Walter Gropius, rimasero incompiuti, perché il fenomeno migratorio dalle campagne verso le città, di fatto non si è mai arrestato, facendo crescere a dismisura e incontrollatamente le periferie, a discapito della qualità dell’abitare, generando quel degrado ambientale e sociale purtroppo ancora oggi irrisolto.

Riprendere coscienza

Dissecazione di Marco Barone 

Guardando indietro appare evidente che mai nessun’epidemia, guerra, catastrofe o terremoto sia riuscita ad annientare le città e neanche a sradicare completamente l’uomo dal suo habitat. L’aspetto positivo di qualsiasi processo evolutivo, accettato o subito, resta la capacità umana di adattarsi a ogni mutamento, perché l’uomo, per sua natura, è già abituato all’idea di cambiamento, ancor prima che questo abbia preso forma.  Anche questa volta, sopravvivremo al Covid-19, ma il nostro stile di vita dovrà fondarsi su nuovi principi e nuovi valori che, rimettendo tutto in discussione, dovranno restituire all’uomo la sua centralità rispetto ad ogni decisione, mantenendo in perfetto equilibrio assetti democratici e bisogni sociali. È impensabile credere che il mondo possa ripartire dall’esatto punto in cui si è fermato, bisogna invertire la marcia e iniziare a vedere la pandemia, e la crisi che ne è derivata, come “punto di forza” attorno al quale costruire nuove visioni per la ripartenza delle nostre città, rendendole a dimensione d’uomo, rispettando gli opportuni distanziamenti sociali. Partendo dal presupposto che, ancora oggi, nel 2020, molte città sono “contenitori” di malattie trasmissibili, dovute all’inquinamento atmosferico, alla cattiva gestione dei rifiuti solidi urbani, alle obsolete reti di smaltimento delle acque reflue e fognarie, alla depurazione mal funzionante, alla mancanza di acqua, oltre che potabile, anche corrente, all’assembramento collettivo in spazi inadeguati, sono veramente tanti i focolai attivi di microrganismi pericolosi, che convivono al nostro fianco, diffusi molto più di quanto si possa immaginare, ma noi ce ne dimentichiamo, perché siamo talmente assuefatti allo stato di degrado da credere che sia normale. Perciò anche se il Covid-19 ci ha consegnato una visione “spettrale” delle nostre città restituendole prive dei ritmi vitali ai quali eravamo abituati, prima o poi torneremo tutti a condividere, oltre agli spazi urbani, anche ambienti di aggregazione come uffici, scuole, teatri, stadi, ristoranti, mercati, e quando tutto questo sarà possibile, con la regolarità concessa, certo che “non sarà come prima”, piuttosto “dovrà essere come avrebbe dovuto” in tempi non sospetti.

Negli ultimi decenni la crisi economica, con troppa facilità, ha giocato al ribasso sulla permissione spaziale, si sono ristretti gli ambienti di lavoro, quelli destinati all’istruzione, persino quelli riservati alla sanità, quasi sempre dimenticando l’esistenza di standard vitali imposti dalle normative (su nostra richiesta), in riferimento a benessere igienico/sanitario e sicurezza, andate in deroga a provvedimenti che hanno dato priorità al “taglio” dei posti di lavoro, causa dell’accorpamento e accentramento di funzioni, servizi e relativi spazi.  Conseguenza di questo processo decisionale, sarà l’emanazione di ulteriori normative necessarie per curare i mali derivanti dal non rispetto delle normative precedenti, soprattutto in termini di sicurezza, privacy, barriere architettoniche, adeguamenti di ogni tipo, senza entrare in merito al, più contorto, campo fiscale e tributario. Se da un lato è vero che la pandemia ci ha resi più dipendenti, positivamente, dalle tecnologie consentendoci di restare “connessi” con il mondo, permettendoci di lavorare, studiare, relazionarci e addirittura di fare la spesa, adesso tornando “liberi” dovremo fare i conti con questa “seconda fase” che non è solo il paradigma tracciato su un decreto, bensì la scoperta di un mondo che non ci appartiene più, che sicuramente metterà a regime le relazioni virtuali, ma avrà bisogno di nuove progettualità pensando a una decisa inversione di tendenza nel disegno di una città post- Codiv, che sia resiliente e soprattutto “misurata”.

URGE una rivoluzione culturale, affinché gli errori commessi in passato possano diventare punti di forza, mentre le conoscenze e le competenze devono trovare riscontro nella concretezza.

Continua:

Linee guida per una “Città Misurata” post Covid-19. Nuovi stili di vita. (parte 2)

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About the Author: Antonella Postorino

Antonella Postorino è una Giornalista Pubblicista specializzata in architettura e beni culturali che collabora con il Metropolitano.it. Antonella Postorino è anche un architetto, designer e scenografa.