di Peppe Giannetto – Con il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 10 Aprile 2020 il Presidente Conte e il suo variegato Governo si è preso la responsabilità di non permettere la riapertura delle attività industriali e mercantili in genere che non sono incluse tra quelle, catalogate nell’allegato 3 al decreto, pensate vitali ed indispensabili anche in una condizione emergenziale qual è quella che sfortunatamente stiamo vivendo. Si riafferma anche che sono permesse, previa comunicazione alla Prefettura competente, le attività funzionali ad salvaguardare la continuità delle filiere di cui all’anzidetto allegato 3. In definitiva, è ovvio che non possono essere interrotte, per fare un esempio, le imprese alimentari (molto più arduo e difficile comprendere, perché nell’elencazione appaia e sia considerata anche la «fabbricazione di articoli in paglia o materiali da intreccio»), ma è anche chiaro che non si potranno di certo fermare le attività che, pur non essendo in sé vitali, permettono alle industrie alimentari di proseguire a produrre gli alimenti. Per queste ultime, è previsto l’accertamento delle prefetture, che potranno sospendere le attività allorché la comunicata funzionalità non esista. Tutto molto razionale, verrebbe da dire: stabilito che la tutela della salute è esigenza fondamentale che non può essere subordinata a nulla, evidentemente chi produce ruote per motociclette o vestiario potrà anche star fermo fino a che il virus non sia stato sconfitto ed estirpato o comunque controllato in modo tale da azzerare (o quasi) i rischi. Se, nondimeno, si riflette sul provvedimento, confermativo di quello già preso il 22 Marzo, non si potrà che prendere atto che esso è fortemente imperfetto e assolutamente grave, per due fondamentali e basilari ragioni.
La prima. C’è un problema di libertà. Il provvedimento governativo urta con l’autonomia di iniziativa economica, garantita dall’art. 41 della Costituzione, a prescindere dal fatto che l’attività industriale-commerciale generi o meno rischi di propagazione del contagio: se tutti i lavoratori sono protetti dei presidi antivirus, se sono state messe in atto le iniziative di sanificazione degli ambienti e se è assicurato il distanziamento sociale, perché mai l’impresa non dovrebbe aprire i propri cancelli o saracinesche? Diciamoci la verità: se vengono rispettate le direttive, peraltro annunciato in apposito protocollo, si corrono più rischi ad andare all’ipermercato (o a andare regolarmente in lavanderie, in cartolerie ed in librerie, (che inaspettatamente, possono riaprire dal 14 aprile) che a operare in azienda. L’atteggiamento del Governo, ossessivamente uniformizzante, muove chiaramente dall’immotivata tesi che gli industriali siano soggetti irresponsabili che, pur di speculare, metterebbero a cuor leggero in azzardo la salute dei propri lavoratori. Va da sé poi che l’esistenza dei presidi deve essere controllata, pertanto se, a seguito di accertamento, si scoprirà che l’imprenditore non ha fatto quello che doveva, lo stesso dovrà essere sanzionato con durezza e rigidità.
La seconda. È veramente preoccupante la scarsa considerazione nei confronti dei bisogni delle aziende, che, ogni giorno che passa, potrebbero perdere clienti che hanno conquistato con sforzo, impegno e abnegazione in molti casi ultradecennali. Sia chiaro, non mi aspetto che si sia in grado di vedere nell’impresa in un periodo in cui riaffiorano gli spettri dello statalismo più sregolato e insolente, quello che l’impresa veramente è, un luogo straordinario in cui gli individui cooperano tra loro per soddisfare necessità di altri individui mai visti e mai conosciuti che risiedono, in molti casi, a migliaia di chilometri di distanza. Questo è chiaramente impossibile nella nostra nazione, non solo nell’attuale difficilissima circostanza. Quel che però sarebbe lecito aspettarsi è che perlomeno si comprenda che non è detto che le attività che adesso si tengono assurdamente chiuse riusciranno ad aprire quando finalmente (il 3 maggio?) lo Stato autorizzerà loro di farlo. Il Governo e Il presidente Conte si stanno assumendo quindi un grandissimo rischio. Il momento è drammatico, ma lo sarà ancora di più se le imprese si troveranno decimate e sicuramente in grande difficoltà al momento della riapertura: che l’inviolabile «io resto a casa» non si trasformi da espressione piena di senso della responsabilità in vuoto motto evocativo della stoltezza di chi non è stato in grado di conformare le esigenze della medicina con quelle dell’economia.