«Si cresce tacendo, chiudendo gli occhi ogni tanto, si cresce sentendo d’improvviso molta distanza da tutte le persone». L’avanzata del Coronavirus sta lasciando dietro di sé morti, dolore, sofferenza, danni, ma anche una certezza, che le parole dello scrittore Erri De Luca scolpiscono: nei giorni in cui la distanza è imposta quasi per legge, si va lentamente riscoprendo l’importanza dell’altro. Si vive in un periodo storico che relega in condizione di minore importanza: chi cerca di costruire la grammatica dell’incontro viene a trovarsi in minoranza. Per i più è molto più facile declinare, in tutte le sfumature, il concetto dello scontro. Oggi, d’altra parte, spesso c’è connessione, non comunicazione: i dispositivi elettronici, chiave d’accesso al mondo virtuale, hanno portato ad un distacco dalla realtà che si è tradotto anche in costante, progressivo allontanamento dal prossimo. Paradossalmente, tuttavia, l’emergenza presente, con gli inviti – scientificamente dovuti – a starsene chiusi in casa ed a mettere almeno un metro tra sé e gli altri, sta oggettivamente risvegliando la consapevolezza di quanto importanti siano le relazioni interpersonali in un mondo in cui pure si tracciano confini e si costruiscono muri che la storia e la vita, però, come sempre si incaricano prima o poi di cancellare. Il tutto parte probabilmente da una constatazione: nelle ore del crescente isolamento, va facendosi strada in tutti ed in ciascuno, a livello individuale come sul piano collettivo un sentimento preciso senza troppi fronzoli, descritto dal sociologo Zygmunt Bauman: «Ciò che tutti apparentemente temiamo, affetti da depressione da dipendenza o no, in piena luce del giorno o tormentati da allucinazioni notturne, è l’abbandono, l’esclusione, l’essere respinti, banditi, ripudiati, abbandonati, spogliati di ciò che siamo, il vederci rifiutare ciò che vogliamo essere. Temiamo che ci vengano negati compagnia, amore, aiuto. Temiamo di venir gettati tra i rifiuti». È evidente. E per quanto già chiaro e noto, adesso per una volta ancora è anche dimostrato: la solitudine è un male che rattrista. Nelle separazioni, nelle divisioni, emerge nitido il bisogno di amore. Non occorre chiederlo ai tanti anziani soli, impauriti in casa o negli istituti di ricovero, dal virus forzosamente privati anche dal piacere di qualche visita o passeggiata all’aria aperta. Non serve domandarlo a quanti dimorano nelle zone rosse, o ai medici ed agli infermieri da settimane in prima linea, lontano da famiglie ed affetti. La morsa delle misure di prevenzione, che si stringe sempre più davanti al timore della pandemia, porta tutti a sperimentarlo sulla propria pelle. Telefoni, computer e macchine – fortunatamente – continuano a funzionare, ma la solitudine che prima era latente ora è presente. Ma adesso non c’è chi non voglia superarla: nella sorte avversa stiamo -chissà- riscoprendo la gioia e il dono di essere comunità.
+ Vincenzo Bertolone