Sabato 3 Agosto, alle ore 18:00, si inaugura a Seminara (RC) il Museo delle Ceramiche di Calabria

L’inaugurazione sarà preceduta da un incontro presso la sala consiliare, con l’intervento di Mario Panarello, presidente del Centro Studi Esperide, Domenico Pisani, ex direttore del Museo Civico di Rende, e Monica De Marco, responsabile dell’allestimento. Fondato nel 2011 di concerto con il Centro Studi Esperide, ma allestito tra il 2018 e il 2019, anche grazie all’impegno profuso dal sindaco Carmelo Arfuso, il museo nasce per documentare le produzioni ceramiche regionali, molte delle quali oggi estinte, facendo ricorso, laddove ancora possibile, anche alle testimonianze degli artigiani che hanno svolto tali attività. Oltre a una collezione di oltre 500 opere afferenti a 20 centri di produzione, il museo presenta al pubblico una ricca documentazione fotografica e audiovisiva. Il percorso museale, che si estrinseca in tre sale, si propone l’obiettivo di tracciare un quadro dei principali contesti produttivi della ceramica regionale: “principali” non soltanto per durata del fenomeno e quantità di artefici e manufatti, ma anche, e soprattutto, per i caratteri specifici che conferiscono una precisa fisionomia alla tradizione figulina di una determinata area.

«Più che le case in cui l’uomo abita, più che le armi con cui combatte, più che qualsiasi altro utensile o gioiello la ceramica ha uno stretto legame con la collettività che la crea e l’adopera, riflette anzi la sua personalità molto più fedelmente di qualsiasi espressione materiale della cultura di un popolo». Espresso da Martin Almagro, studioso di culture materiali primitive, questo concetto focalizza il ruolo che i documenti di “terra” plasmata, foggiata e cotta dall’uomo in ogni parte del globo ricoprono quali fonti primarie della storia e della cultura delle civiltà che li hanno prodotti. Per limitarsi ad un esempio alla portata di tutti, basti richiamare l’importanza dei reperti vascolari nell’ambito degli studi sulla Grecia antica. Questa efficacia semantica dei manufatti ceramici, quale veicolo di un complesso di elementi frutto di stratificazione e sedimentazione storica che consente di penetrare le più profonde radici culturali di un popolo, si perpetua in tutte quelle espressioni, anche recenti e attuali, che si possono far ricadere nel campo delle produzioni artigianali d’impianto tradizionale. Laddove, cioè, l’apporto creativo del singolo artigiano viene sistematicamente riassorbito in un flusso plurisecolare che basa la propria identità su un sistema di codici – tecnologici, materici, linguistici, simbolici – trasmessi di generazione in generazione e che anche quando si evolvono e si arricchiscono di elementi nuovi continuano a fluire nel solco della tradizione conservando precisi caratteri di riconoscibilità che riflettono peraltro un profondo legame col territorio e con l’immaginario della collettività.

Tra le regioni italiane periferiche, la Calabria è quella che nel corso del Novecento, in particolare in alcune aree, ha mantenuto un tenace e irriflesso attaccamento ad usanze e pratiche che altrove la civiltà occidentale ha “superato” da secoli. È così che alcuni contesti produttivi dai caratteri “ancestrali” si sono conservati fino ai nostri giorni, richiamando da un lato l’attenzione degli studiosi di etnografia e di etnoarcheologia e imponendosi dall’altro nelle loro valenze di risorsa culturale anche per le comunità locali, che, ci si augura, possano sempre più sviluppare la consapevolezza di detenere un patrimonio immateriale di inestimabile valore. È noto al mondo come la ceramica di Horezu, annoverata tra i fenomeni più rappresentativi della cultura rumena, nel 2012 sia stata inclusa nel patrimonio culturale immateriale dell’UNESCO. Si tratta di una produzione – prevalentemente scodelle – che rivisita tipologie e repertori decorativi medievali che dai Balcani si diffusero largamente anche nell’Italia meridionale e particolarmente in Calabria rappresentando quelle che gli archeologi chiamano invetriate policrome. Ebbene in Calabria forse non tutti sanno che esiste un paese – Seminara – dove non solo i ceramisti locali portano avanti la tecnica di origini bizantine dell’ingobbio sotto vetrina ma dove inoltre sono tutt’oggi miracolosamente attive antiche fornaci a nocciolo di ulivo. Quella di Seminara è una ceramica veramente dall’aura antica, che ormai da oltre un secolo ha varcato i confini regionali partecipando a importanti esposizioni nazionali e internazionali, ovunque trionfando per il suo schietto sapore popolaresco e i profondi significati simbolici sottesi ai tipici soggetti interpretati dai ceramisti: la maschera apotropaica, mostruosa ed eretica o ispirata a eleganti prototipi classici, ma sempre diretta a preservare la dimora dagli influssi malefici; il riccio, che pur irto di aculei si configura quale simbolo di fecondità; il pesce, che rinvia da un lato alla tradizione cristiana e dall’altro a quella marinara; e poi fiasche antropomorfe, boccali a segreto, calabriselle e babbuini, sirene e tutto ciò che la fervida fantasia del ceramista di volta in volta suggerisce alle mani e al cuore.

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