I consumatori italiani, e oggi consumano meno di otto anni fa. Nel 2018 la spesa media annuale in termini reali – cioè al netto dell’inflazione – delle famiglie italiane è stata di 28.251 euro, inferiore di 2.530 euro ai livelli del 2011 (-8,2%). Una cifra superiore ad un mese intero di acquisti da parte di una famiglia media e anche alla perdita effettiva di reddito (-1990 euro) registrata nello stesso periodo. Complessivamente, il mercato interno italiano ha perso circa 60 miliardi di euro di spesa negli ultimi otto anni, ed il bilancio probabilmente continuerà a peggiorare. Si spende di meno praticamente su tutto – ad eccezione di Istruzione e Sanità – ma la spending review delle famiglie non ha colpito con la stessa forza tutte le voci. Tra le spese più rappresentative nei bilanci domestici, sono state tagliate soprattutto le spese per l’abitazione, -1.100 euro circa all’anno per famiglia rispetto al 2011. Tagli importanti anche su abbigliamento (-280 euro), ricreazione e spettacoli (-182 euro), comunicazioni (-164 euro), alimentari (-322 euro). In proporzione, però, è la voce comunicazioni ad aver perso di più: la flessione della spesa è del 19%. Gli italiani spendono di meno anche per gli smartphone, un tempo passione nazionale. Impressionante anche la riduzione del budget impegnato sugli alimentari: una voce di consumo che un tempo si riteneva una ‘spesa incomprimibile’, e che invece ha perso il 6%. Crescono invece le spese per la sanità (+12,1%) e l’istruzione (+24,7%).
La spesa nelle Regioni 2011-2018
La crisi dei consumi ha colpito tutta l’Italia, anche se con differenze profonde a seconda dei territori. Quel che è certo, è che il segno meno è la costante: anche le famiglie delle regioni tradizionalmente più ricche hanno stretto la cinghia. Nell’intero panorama nazionale solo le famiglie della Basilicata, infatti, hanno visto un piccolo progresso – circa 500 euro di spesa media annuale in più – rispetto al 2011. Le restanti 19 regioni hanno registrato cali, in 10 casi superiori ai 3.000 euro a famiglia, in termini reali. A perdere di più sono stati i nuclei familiari delle Marche, dove il budget familiare si è ristretto (anche a causa degli effetti del terremoto) addirittura di 5.500 euro l’anno. Segue la Calabria – 4.800 euro in meno a famiglia – poi il Veneto, dove la spesa è di 4.400 euro inferiore ai livelli del 2011. Tra le performance meno negative, ad esclusione della già citata Basilicata, c’è la Liguria: nella regione si registra un arretramento ‘contenuto’ di 500 euro. In terza posizione la Sicilia (-700 euro).
La spesa nel 2020: Iva o non Iva?
Tra questo ed il prossimo anno, la spesa delle famiglie dovrebbe registrare un lieve recupero, anche grazie alle misure espansive adottate nell’ultima legge di Bilancio (vedi Focus): al 2020 si stima una spesa media annuale in termini reali di 28.533 euro, con un incremento annuo di poco più di 140 euro. La previsione, però, non incorpora il possibile aumento delle aliquote Iva previsto dalle clausole di salvaguardia per il 2020, e non ancora scongiurato ufficialmente.
L’aumento dell’Iva annullerebbe tutti i progressi, portando ad una riduzione di 8,1 miliardi di euro della spesa delle famiglie, pari a 311 euro di minori consumi a testa. L’impatto dell’IVA avrebbe un effetto devastante anche sul tessuto delle imprese del commercio, già in sofferenza. La frenata dei consumi che seguirebbe l’incremento delle aliquote IVA porterebbe, secondo le nostre stime, alla scomparsa di altri 9mila negozi circa da qui al 2020.
Spesa media annuale delle famiglie (euro, termini reali) e numerosità esercizi commerciali 2011/2018/2020 con aumento Iva e senza aumento Iva
2011 |
2018 |
2020 SENZA IVA |
2020 CON IVA |
Diff. IVA/SENZA IVA |
|
Spesa famiglie (euro) |
30.781 |
28.251 |
28.533 |
28.223 |
– 310 |
Numero negozi |
762.917 |
742.490 |
733.000 |
724.010 |
– 8.990 |
Gli effetti del reddito di cittadinanza
Il reddito di cittadinanza e gli altri interventi espansivi contenuti nella manovra (regime forfettario, etc..) potrebbero portare ad un aumento della spesa delle famiglie di 7 miliardi di euro in tre anni (2019-2021). L’effetto della misura è più contenuto nel 2019, più incisivo nel 2020-2021: al netto dell’inflazione, infatti, la spesa delle famiglie è prevista aumentare di un miliardo nel 2019 e di 6 miliardi nel biennio 2020-21. Si tratta di stime basate sulle previsioni ufficiali della numerosità di beneficiari del provvedimento: nel caso in cui, come sembra dai primi dati, i richiedenti dovessero essere meno del previsto, gli effetti sui consumi sarebbero minori.
Il commercio tra crisi e nuove abitudini di spesa: i negozi che vanno, quelli che non vanno
La riduzione dei consumi da parte delle famiglie ha avuto un impatto molto forte sulle imprese della distribuzione commerciale. Tra il 2011 ed il 2018 sono spariti oltre 32mila negozi in sede fissa specializzati in prodotti non alimentari. È il saldo tra le aperture e le tante, troppe chiusure di imprese che proseguono a ritmi impressionanti: ancora nel 2018 hanno chiuso 153 negozi al giorno.
A sostituire le botteghe, sempre di più, ristoranti e web. I pubblici esercizi e le altre imprese della ristorazione negli ultimi 8 anni sono aumentati del 10,1%, pari a quasi 31mila attività in più. L’alloggio ha messo invece a segno un aumento del 15,3%. I negozi su internet sono poi letteralmente esplosi: dal 2011 ad oggi ne sono nati altri 11mila, per un incremento a tre cifre del +119,8%.
La crisi dei negozi ha colpito in maniera diversa le differenti tipologie di attività commerciale. A pagare più di tutti è l’abbigliamento, che lascia sul campo oltre 13mila saracinesche abbassate: la moda non pare più essere nel Dna degli italiani. Ma pesanti perdite si registrano anche per le librerie (-628), le edicole (-3.083), i ferramenta (-4.115) e anche per i negozi di giocattoli (-1.034). Ma c’è anche chi cresce, perché in grado di intercettare i cambiamenti delle abitudini di consumo degli italiani dettati dalla crisi e dalle nuove sensibilità. Un fenomeno evidente tra i negozi alimentari: dal 2011 ad oggi spariscono oltre 3000 macellerie, ed una lieve flessione si registra anche per i prodotti da forno ed i dolciumi (-47). Crescono, invece, i negozi specializzati in prodotti da pescheria (135 negozi in più, per una crescita del +1,6%), quelli che vendono bevande (+768, il 13,3% in più) e di frutta e verdura (+1.659).
Anche tra chi resiste, però, non è facile. Il tasso di sopravvivenza delle imprese del commercio, infatti, è via via peggiorato nel tempo. Oggi, delle imprese nate 3 anni fa, ne sopravvive solo il 49%. Una percentuale che si abbassa a quota 45% nell’abbigliamento e del 44% nei pubblici esercizi. Con questo trend, tra le imprese commerciali che hanno avviato la propria attività nel 2018, tra due anni, nel 2020 sarà ancora aperto poco più del 40%. Con la formazione continua, stimiamo che il tempo di vita media delle imprese possa essere addirittura raddoppiato.
Proposte per la crescita
La via maestra per rilanciare i consumi delle famiglie è l’occupazione. I temi del lavoro devono essere al centro delle politiche di sviluppo del nostro Paese: abbiamo bisogno di regole chiare e di più coraggio per ridurre il costo del lavoro e far ripartire le retribuzioni. Abbiamo bisogno di mettere più soldi nelle tasche di chi lavora, in particolare dei salari medi, quelli che hanno più sofferto durante la crisi. Per questo siamo però convinti che quella del salario minimo sia la strada sbagliata da percorrere. Dobbiamo far ripartire la contrattazione, non cancellarla: diciamo dunque sì, con convinzione, alla proposta di una flat tax sugli aumenti salariali al di sopra dei minimi contrattuali. Secondo le nostre stime, una detassazione degli incrementi retributivi per tre anni potrebbe lasciare nelle tasche degli italiani 2,1 miliardi all’anno. Risorse che si trasformerebbero in una spinta di 1,7 miliardi di euro ai consumi, di cui 900 milioni accreditabili alla spesa delle famiglie ed il resto ai consumi di imprese e pubblici. La detassazione degli aumenti, accompagnata al non aumento dell’IVA, ci darebbe nel 2020 circa 9 miliardi di spesa delle famiglie in più, facendo finalmente ripartire il motore dei consumi e quindi la crescita.
I numeri dello studio
-2.530 € = la diminuzione in termini reali della spesa media annuale delle famiglie dal 2011 ad oggi
-60 miliardi di € = la diminuzione complessiva
-280 € = la diminuzione di spesa in abbigliamento nello stesso periodo
-322 € = il taglio del budget per gli alimentari
-5.500 € = la perdita rispetto al 2011 in termini reali di spesa media annuale delle famiglie per la Regione Marche, la più colpita
+500 € = il progresso della spesa annuale nella Regione Basilicata, unico segno più tra le regioni italiane
-32.000 = i negozi non alimentari spariti dal 2011 al 2018
-13.031 = i negozi di abbigliamento persi
-4.115 = il saldo dei ferramenta
-3.083 = le edicole che non ci sono più
+ 31mila = l’aumento di pubblici esercizi tra il 2011 ed il 2018
+ 11mila = l’incremento del numero di imprese dell’eCommerce nello stesso periodo
153 = i negozi che chiudono ogni giorno nel 2018
6 negozi su dieci = chiudono entro tre anni di attività
8,1 miliardi = la spesa delle famiglie che sarebbe cancellata dagli aumenti IVA
-310 € = la minore spesa annuale per famiglia in caso di aumenti IVA
9 miliardi = il recupero di spesa che si otterrebbe disattivando l’IVA e detassando gli aumenti salariali
C.S. Confesercenti