Sono giorni questi di profonda crisi per il Welfare calabrese: le strutture al collasso finanziario, i passi indietro e i Comuni che restituiscono i soldi, la confusione sul futuro del settore. Tuttavia mi preme provare a spostare l’attenzione dal dito, cioè dall’ordinaria amministrazione che spetta non alla politica ma alla burocrazia, e provare a puntare l’accento sulla luna, ovvero sulle sfide che portava in sé la Riforma del Welfare iniziata ormai tre anni fa e ancora non conclusa. Innanzitutto è obbligatorio fare un chiarimento rispetto alle motivazioni del Tar prima e del Consiglio di Stato dopo in merito all’annullamento della delibera di giunta regionale 449/2016 di approvazione del testo della riforma. Le motivazioni, infatti, mai mettono in discussione l’impianto della riforma, ovvero il regolamento o le modalità di gestione di servizi, ma recriminano il mancato coinvolgimento non delle strutture (ampiamente rappresentate dalle sigle autorevoli presenti al tavolo) ma dei Comuni. Ed evidentemente, hanno avuto ragione. Certo, sarebbe stato facile per la politica e per chi governa difendere di fronte all’opinione pubblica l’azione fatta in passato e approvata in giunta, evidenziando come nel 2016 e fino a metà del 2017 mancassero gli organi dell’Anci regionale, tanto che a maggio 2017 era dovuto intervenire il Presidente Nazionale dell’Anci Antonio De Caro e conferire l’incarico a Gianluca Callipo, regolarmente eletto solo nel settembre dello stesso anno a Riforma apparentemente avviata. Ma nessuno ha pensato bene di utilizzare argomento alcuno per difendere il percorso realizzato, né di fare menzione dei tentavi di condivisione e dell’accompagnamento che avevamo previsto ed effettuato con FederSanità e Anci nazionale proprio verso i Comuni, che non abbiamo mai voluto lasciare soli proprio per superare insieme a loro ogni criticità. Tutto si è perso dietro una sorta di omertà che forse fa parte delle ragioni che stanno portando all’estinzione di una certa politica nella nostra regione. La stessa omertà che ha impedito alla politica regionale di difendere il merito della riforma. Bene fa oggi Guccione che richiama la necessità di applicare la legge nazionale 328/2000 vecchia di 18 anni e mai realizzata in Calabria, bene fa ancora a chiedere l’aumento del fondo per il settore di 20 milioni di euro, bene fa chi chiede con urgenza i pagamenti alle strutture, bene fanno i Comuni a richiedere la propria parte di condivisione. Ma c’è dell’altro che, forse volutamente o forse per “non conoscenza”, si sta evitando di rivendicare e che mette al centro gli utenti finali, ovvero le persone più fragili (anziani, disabili, minori a rischio). Innanzitutto l’equità tra i territori, quella che vorrebbe interrompere il funzionamento orientato da lobby di potere e che ha determinato negli anni accreditamenti e riconoscimenti di rette senza alcuna selezione pubblica o manifestazione di interesse e, soprattutto, senza dare il giusto peso a quel principio riconosciuto dalla 328/2000 e dalla legge regionale 23/2003 e che si chiama “fabbisogno”. Questo tipo di funzionamento ha prodotto l’esistenza di un divario enorme tra i territori con ambiti, infatti, che registrano 13,25 posti a retta per 1000 abitanti e altri che sono rimasti a quota 0,91; basti pensare, a titolo esemplificativo, agli accreditamenti a retta per le strutture per disabili: delle 11 presenti e operanti sul territorio regionale, esiste solo una struttura accreditata nell’intera provincia di Reggio Calabria, che opera nella città di Reggio Calabria, la più popolosa della Regione, mentre non vi è alcuna struttura nella locride, nella piana di Gioia Tauro e nella grecanica. E la situazione non cambia di molto se consideriamo gli anziani e i minori a rischio. Ancora la qualità e i controlli: la tanto demonizzata dgr 449/2016, infatti, prevedeva un obbligatorio innalzamento della qualità delle prestazioni, che facevano riferimento sia alle normative nazionali vigenti in materia di infrastrutture e immobili al fine di garantire i giusti spazi per gli utenti, sia al personale qualificato che doveva essere, non volontario, ma assunto con regolare contratto. Questi requisiti dovevano essere validati attraverso controlli periodici da parte delle strutture regionali vincolanti rispetto al mantenimento dell’autorizzazione e, soprattutto, tutelanti i diritti dei lavoratori delle strutture e degli ospiti delle strutture stesse, per i quali era prevista anche una relazione di soddisfazione da parte proprio degli utenti o dei famigliari degli utenti. Infine si era previsto un aumento ponderato delle rette, attualmente le più basse di Italia e che avrebbero visto un seppur leggero aumento in virtù proprio dell’innalzamento della qualità dei servizi. Sottolineo, in conclusione, che nessun tribunale o ente giudiziario ha mai messo in discussione questi aspetti e la bontà di quanto realizzato in questo ambito e pertanto, questi andrebbero difesi e ribaditi con forza. Ma i passi indietro cui oggi si sta assistendo non fanno ben pensare. Mi auguro quindi che ci si assuma la responsabilità di uscire fuori dalla comoda ombra che ripara dagli attacchi e che si prosegua verso il riconoscimento non della giustezza di un percorso avviato, ma delle necessità e dei diritti di chi ogni giorno opera nel settore e di chi vive ogni momento le proprie fragilità e non deve essere lasciato solo.
Federica Roccisano – già assessore regionale