Lavoro: anche tra gli occupati aumenta il rischio povertà

Nonostante negli ultimi anni, in molti paesi europei, si sia assistito a una riduzione costante della disoccupazione, a questa non ha combaciato una sostanziale riduzione del fenomeno della povertà. Ciò è ascrivibile  in primis al problema della scarsa quantità di lavoro, che rimane la prima causa di povertà, e che sembra costituire un’allarmante preoccupazione di politica sociale. Ma l’ aumento del rischio di povertà è anche imputabile alla scarsa qualità del lavoro  alla quale si collegano  diversi attributi negativi connessi alla posizione lavorativa tra i quali: basse retribuzioni, scarse garanzie contributive, irregolarità delle carriere, ecc. Questi fattori determinano un rischio di povertà individuale significativo per i lavoratori e aumentano il rischio di povertà all’interno  dei singoli nuclei familiari. Appare in questo momento storico , in crescita sensibile,  un segmento di popolazione che pur lavorando percepisce un reddito inferiore alla soglia di povertà, sono i cosiddetti” working poors”. L’insorgere del fenomeno è  da attribuire a diverse cause, alcune legate all’evoluzione del mercato del lavoro, altre strettamente dipendenti da cambiamenti istituzionali. Tra le prime rientrano i mutamenti tecnologici della struttura produttiva che hanno favorito la domanda di lavoratori qualificati rispetto a quelli non qualificati (il cosiddetto Skill-Biased Technological Change) . Tra i cambiamenti istituzionali rientrano certamente le riforme di liberalizzazione del mercato del lavoro che hanno determinato il peggioramento della qualità delle posizioni lavorative ma anche l’indebolimento del potere contrattuale dei sindacati e il minor ricorso alla contrattazione centralizzata con ripercussioni negative soprattutto sulla distribuzione dei salari.
Anche secondo i dati Eurostat, in Italia, il fenomeno dei working poors è in aumento e quasi un occupato su otto è a rischio povertà . Il lavoro, infatti,spesso non basta a garantire condizioni economiche adeguate, soprattutto se legato a un contratto precario o part time.Nel nostro Paese nel 2016 i lavoratori a rischio povertà erano l’11,7%, un dato tra i più alti in Ue (peggio solo Romania, Grecia, Spagna e Lussemburgo). Il rischio – spiega Eurostat – è influenzato fortemente dal tipo di contratto posto in essere: sono maggiormente a rischio  coloro che lavorano part time (15,8%) rispetto a quelli che lavorano a tempo pieno (7,8%) rischio che è  almeno tre volte più alto  tra coloro che hanno un impiego temporaneo (16,2%) rispetto a quelli con un contratto a tempo indeterminato (5,8%). Gli uomini  poi sono più a rischio povertà (10%) rispetto alle donne (9,1%). 
A rafforzare questi dati anche lo studio Lavoro: qualità e sviluppo elaborato dalla Fondazione Giuseppe Di Vittorio della Cgil. Peggiora, infatti, la qualità dell’occupazione in Italia e,a fine 2017, le persone in disagio sono oltre 4,5 milioni. «Nell’Unione Europea – si legge nello studio – oltre all’Italia, anche Spagna, Grecia, Portogallo e Irlanda presentano nel quarto trimestre 2017 un numero di ore lavorate inferiore rispetto ai livelli che precedono la crisi (primo trimestre 2008). In Italia, però,è particolarmente marcato, lo scarto tra le due variazioni analizzate (occupati, ore lavorate), entrambe negative. E questo andamento è legato al peggioramento della qualità dell’occupazione nel nostro Paese». Negli ultimi cinque anni (2013-2017), prosegue lo studio, «sono aumentati fortemente i part-time involontari e, soprattutto negli ultimi due, le assunzioni a tempo determinato, portando l’area del disagio (attività lavorativa di carattere temporaneo oppure a part-time involontario) a livelli altissimi». Non solo, un’analisi più approfondita delle assunzioni a tempo determinato (Inps, Osservatorio Precariato), dimostra un peggioramento di questa condizione di lavoro già precaria: «Aumenta anche fra questi lavoratori il part time (+55% fra il 2015 e il 2017) e continua a crescere il numero di dipendenti con contratti di durata fino a sei mesi, che sono passati da meno di un milione nel 2013,a più di 1,4 milioni nel 2017» (dati Eurostat, primi tre trimestri di ciascun anno). E’ evidente dai dati, che la ripresa non è in grado di generare occupazione quantitativamente e qualitativamente adeguata, con una maggioranza di imprese che scommette prevalentemente su un futuro a breve termine e su competizione di costo”.

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