In questi ultimi giorni si è riacceso il dibattito sugli effetti della misura dello scioglimento dei Comuni per infiltrazioni mafiose proprio nel momento in cui la Legislatura si conclude e ogni ipotesi di riforma va inevitabilmente rinviata. . Dati statistici (aggiornati al 22 novembre 2017) evidenziano che negli ultimi 5 anni la Calabria è la regione ad avere il maggior numero di scioglimenti con ben 43 (su un totale di 81) contro appena 18 della Campania. Nell’ultimo quinquennio sembrerebbe quindi che lo strumento legislativo si sia trasformato in una legge speciale per la Calabria che diventa la regione maggiormente interessata da decreti di scioglimento con una percentuale superiore al 50% del totale. A cosa è dovuto ciò? A una applicazione particolarmente severa, ad una affermazione dello Stato di Sicurezza sullo Stato di Diritto in base alla quale le garanzie soccombono rispetto alla necessità di tutelare il bene sicurezza? Ciò è dovuto ad una supremazia della ‘ndrangheta sulle altre forze criminali? Se ci arrendessimo a questa ultima ingenua spiegazione tralasceremmo le evidenze ormai storiche circa la capacità dell’organizzazione di espandersi nei continenti e catturare regolatori almeno a livello nazionale. La conseguenza di un’analisi più puntuale non può che portare a rilevare che siamo in presenza di alcuni evidenti limiti nella legge e nella sua applicazione. Qualche anno fa un giornalista e saggista calabrese, Aldo Varano ebbe a dimostrare che il numero dei cognomi dei paesi dell’entroterra ionico come Platì e San Luca erano di molto inferiori a quello dei paesi di pari peso demografico collocati in aree dove la mobilità e l’accessibilità erano superiori. In estrema sintesi, in un sistema sociale isolato i matrimoni tra parenti sono maggiori e una norma che prevede lo scioglimento nel caso infiltrazione diretta o indiretta e quindi anche di semplice parentela di un amministratore con un appartenente alla criminalità organizzata diventa un evento tutt’altro che raro in un comune di 3000 anime. Tornando all’ attualità degli interventi di modifica, invocati peraltro da un documento di 51 sindaci della città metropolitana di Reggio in una lettera al Ministro degli Interni, non si può non sottolineare quanto detto dal neo procuratore nazionale Cafiero De Raho che proprio in questi giorni ha invocato un intervento volto a sostenere i Comuni dopo lo scioglimento. Né può dimenticarsi la frustrazione dell’allora prefetto Luigi De Sena quando in Commissione Parlamentare ebbe a dire che si era opposto al terzo scioglimento del Comune di Melito poiché avrebbe rappresentato una sorta di sconfitta per lo Stato (per la cronaca il terzo scioglimento arrivò lo stesso a distanza di anni e speriamo sia l’ultimo). Quella dello scioglimento è una politica non scevra di effetti collaterali, sia in termini di immagine sia in termini di capacità gestionale e competenze delle strutture commissariali che spesso aggravano e non di poco i problemi amministrativi del Comune. Si assiste infatti al caso di numerosi comuni con reiterazioni di scioglimento ad intervalli di tempo ravvicinati, cosa che denota una certa inefficacia del provvedimento. Alla luce di questa sia pur sommaria analisi si possono trarre alcune considerazioni che possono costituire una prima base di riflessione per una riforma di questo istituto. Non si può non notare che ci troviamo in una situazione in cui si opera con il paradigma dell’urgenza e nel contempo non esiste una graduazione degli interventi. Una volta che la commissione d’accesso si è insediata le conseguenze non sono graduabili ed adattabili al caso concreto. Si potrebbero citare casi concreti, ma spesso la differenza tra i fatti contestati nei Comuni sciolti e quelli accettati negli altri è abbastanza soggettiva. Quanto all’accertamento dell’esistenza del condizionamento occorrerebbe rendere meno arbitrari i canoni su cui si basa la valutazione, spostando l’attenzione dai soggetti alle condotte amministrative e quindi agli atti effettivamente adottati per evitare che, specie nei piccoli comuni il rapporto di semplice parentela o una interlocuzione occasionale possa essere tradotta in un contagio amministrativo. Questione connessa è, poi, quella del procedimento di incandidabilità rispetto al quale occorre subordinare la sua attivazione a comportamenti e a condotte amministrative reali per evitare l’assurdo giuridico di una sorta di responsabilità oggettiva del sindaco che, in alcuni casi, quando non gli venga contestato alcun atto, da vittima di un tentativo di infiltrazione rischia di diventare colpevole per l’esistenza della criminalità sul suo territorio. Alla luce di quanto detto, una proposta di riforma potrebbe essere quella di eliminare il carattere di urgenza all’insediamento della Commissione di accesso e costruire invece una procedura ordinaria di verifica dell’attività ammnistrativa da parte di un organo apposito che valga per tutti i comuni italiani, con l’obbligatorietà di sottoporsi ad una procedura di verifica dell’attività amministrativa ogni due anni per i centri con più di 15 mila abitanti, ogni 4 anni per i comuni più piccoli e ogni anno per le città metropolitane, le regioni e per quei comuni in cui vi sia stato uno scioglimento del consiglio negli ultimi 5 anni. L’obbligatorietà della procedura dovrebbe, poi, essere estesa a tutti quegli enti pubblici che possono essere oggetto di infiltrazioni (ASL e Aziende Ospedaliere, Società in House e Partecipate, Enti Strumentali, Società di Gestione di Appalti in Project Financing). L’esito della verifica sulle infiltrazioni della criminalità potrebbe dare origine a sanzioni differenziate. Un approccio di questo tipo mira innanzitutto ad evitare l’evoluzione della patologia del sistema, mentre la metodologia attuale si basa su un approccio di tipo chirurgico che interviene con il bisturi e senza una tutela e cautela giurisdizionale quando ormai la situazione si è incanalata. Nell’ambito di questa proposta di riforma, lo scioglimento del Consiglio Comunale diventa una extrema ratio che deve sempre essere accompagnato da un percorso di monitoraggio successivo dell’attività amministrativa mirato ad evitare ricadute. E’ però evidente che il personale utile a questa attività deve essere professionalizzato in quanto la semplice appartenenza ad una prefettura non è di per sé sufficiente e occorre prendere atto che avere riformato la legge Bassanini quater impedendo la cancellazione-trasformazione delle Prefetture ha mantenuto un ufficio napoleonico nella genesi che non corrisponde più se non in un’aura paternalistica e centralistica alle mutate esigenze di oggi. In sintesi si propone di trasformare da straordinaria ad ordinaria la procedura di verifica delle infiltrazioni mafiose all’interno degli enti locali, aumentando le garanzie e di promuovere una serie di sanzioni crescenti, unite all’eventuale azione di affiancamento nell’attività amministrativa degli organi politici da parte di una task force specializzata, per evitare l’aggravarsi del fenomeno dell’infiltrazione criminale all’interno degli enti locali.
Demetrio Naccari Carlizzi – Domenico Marino