I mini Jobs continueranno ad esistere, sarà necessario un nuovo strumento per regolamentare i lavori occasionali Auspichiamo che l’intervento sui voucher non sia ideologico. L’ipotesi di restringere l’uso dei buoni lavoro alle sole attività senza dipendenti vorrebbe dire, di fatto, precluderne l’accesso al 40% delle imprese. Con chiare conseguenze negative, in particolare sulle realtà imprenditoriali meno strutturate, che hanno maggiori difficoltà a gestire il lavoro non programmabile. Ma danneggerà anche i tanti italiani che, messi in difficoltà dalla crisi, in questi anni hanno ottenuto grazie ai voucher un’indispensabile integrazione di reddito. Così Confesercenti Calabria commenta le ipotesi di modifica dei voucher, contenute nel testo unico la cui discussione inizia oggi. I mini jobs, cui i buoni lavoro sono rivolti, sono ormai una realtà della società e del mercato del lavoro di oggi. Un mercato più flessibile del passato ma anche più instabile, visto che quasi la metà delle imprese dura meno di quattro anni. Anche senza voucher, i lavori occasionali continueranno dunque ad esistere: sarà pertanto necessario creare un altro strumento per regolamentare tutte quelle prestazioni occasionali che nelle imprese non possono essere inquadrate in rapporti di lavoro tradizionale. Soprattutto in quei settori – come il turismo, il marketing e l’organizzazione eventi – che si trovano spesso a dover fronteggiare aumenti imprevedibili ma momentanei dell’attività. Per questo serve una riforma che tenga conto dei reali bisogni delle imprese, senza dimenticare i passi che sono già stati compiuti per migliorare lo strumento: l’introduzione della tracciabilità ha già fortemente circoscritto l’uso dei buoni lavoro, come certificano i dati della stessa Inps. Dati che dimostrano anche l’occasionalità del loro impiego: in media, i lavoratori pagati con questo strumento hanno guadagnato 600 euro lordi all’anno a testa. Somme ben lontane dalle remunerazioni percepibili attraverso un lavoro continuativo, e che infatti sono state percepite per il 63% da persone con un’altra fonte di reddito, da lavoro autonomo, dipendente o anche da pensione, in cerca di un’integrazione. Il restante 37% è costituito soprattutto da studenti o da persone inattive o non occupate che colgono occasioni di guadagno. Ci sfugge come toglier loro questa possibilità possa essere un fatto positivo, soprattutto in un Paese caratterizzato da livelli di disoccupazione e povertà preoccupanti come il nostro.
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