Davvero l’Italia è sul punto di percorre l’ultimo miglio sul piano delle riforme strutturali? Ne sembra convinto il Premier Renzi, ma, senza nulla togliere al suo personale convincimento (che, peraltro, non è il convincimento della stragrande maggioranza degli italiani, sebbene per lui sia solo un dettaglio) il dubbio che si tratti dell’ennesima forzatura ideologica è dietro l’angolo. Lo fa spesso il segretario del partito democratico. Gli è sufficiente mettere assieme qualche (troppo spesso) temporaneo dato economico positivo – tacendo peraltro sull’influenza che sui dati ha il (per il momento) favorevole contesto internazionale ed evitando di dare il giusto risalto al periodo estivo da poco passato – per mettere nuovamente in moto la macchina della propaganda e dell’ottimismo.
Superata la fase della transizione, non resta che percorrere questo ultimo miglio e “pensare all’Italia dei prossimi 20 anni”. E giù a sciorinare le conquiste – se è lecito cosi definirle – del suo governo: la riforma costituzionale, rispetto alla quale i dubbi sui contenuti e sulle prospettive future restano là quasi indisturbati; le politiche sull’immigrazione, rispetto alle quali, tra contestate operazioni in mare, fiumi di denaro di volta in volta spesi, gestione interna degli immigrati e recente legittimazione dello Ius soli, il buon senso induce a stendere il classico velo pietoso; la contestatissima riforma della scuola; il Jobs act; la legge di stabilità, definita via facebook dall’ex sindaco di Firenze “Più forte. Più semplice. Più orgogliosa. Più giusta”.
Non è da meno nemmeno in merito ad altri due temi molto delicati, ovvero tasse e rapporti con l’Europa. E anche qui casca l’asino e casa rumorosamente. Sul primo fronte, quello della pressione fiscale, sempre attraverso la sua pagina facebook, il premier non si è limitato a lanciare una frecciatina velenosa a “quelli che per anni si sono dimenticati di abbassare le tasse” e “oggi dicono che la nostra legge di stabilità non funzionerà”, ma si è addirittura spinto a dichiarare che “le tasse possono andare giù, davvero” (ma come non erano già andate giù, signor presidente?). Il ritornello è sempre lo stesso: “ottanta euro, Irap costo del lavoro, Imu e Tasi dimostrano che si può fare sul serio. Noi ci crediamo, l’Italia può ripartire davvero”. Tralasciando il contesto internazionale e il periodo estivo inevitabilmente favorevole a consumi e turismo, per il momento hanno dimostrato ben poco. I numeri su assunzioni e stabilizzazioni oscillano, si tace sui licenziamenti e, soprattutto, sul rapporto reale tra imprese che nascono e imprese che muoiono.
Sul secondo fronte c’è poco da aggiungere. Renzi ha sostenuto che “l’Ue non è luogo in cui si prendono ordini”, ma che, diversamente, “è una costruzione straordinaria ma va rafforzata e fatta vivere”. Gli ultimi mesi, dalla gestione dell’immigrazione alla crisi ucraina, passando attraverso le politiche sociali e monetarie e il semestre italiano di guida dell’Ue, dimostrano l’esatto contrario: il nostro Paese non ha alcuna voce in capitolo e deve limitarsi a prendere atto delle decisioni prese da altri, l’Europa sta implodendo e tutte le falle stanno mettendo in evidenza la debolezza di una struttura che non si fonda su principi e valori comuni ma sul mercato e sulla finanza.
Ma il segretario dem ha raggiunto l’apice del delirio di onnipotenza, affermando che “se manterremo il ruolo di superpotenza culturale tra 20 anni l’Italia sarà una guida per il mondo”. L’Italia non è più una superpotenza, il suo ruolo è fortemente ridimensionato e, dal punto di vista culturale, sta esprimendo ben poco da diversi anni, a parte i tentativi di conformarsi al pensiero unico in materia di ideologia gender e immigrazionismo.