La “Dolce Morte” il punto di vista del prof. Mark Tano Palermo

L’eutanasia è da tempo oggetto di vive controversie ed accese discussioni. “La bella morte” che pone fine alle sofferenze di pazienti senza speranza di guarigione, non trova ancora, in Italia, un unanime pensiero né in campo medico, né morale, né giuridico che metta d’accordo tutti. La scienza moderna ha i mezzi per alleviare gli strazi precedenti la morte di un ammalato terminale, ma fino a che punto e a quale prezzo?

Il tema è delicato e il Parlamento italiano, da troppo tempo, non riesce ad affrontare un colloquio sereno sulla materia: ci sono coloro che asseriscono che non si può mai essere sicuri di una prognosi e delle sue variabili di fatalità, e dall’altra associazioni per il diritto alla libertà di decidere se soffrire o morire fino alla fine, sottolineando l’urgenza di buone regole e buona informazione su testamento biologico e eutanasia.

Il neurologo Mark Tano Palermo, Professore di Psichiatria presso il Dipartimento di psichiatria e medicina del comportamento al Medical College of Wisconsin, Milwaukee, USA e presidente del Law and Behavior Foundation.

Prof. Palermo, io la interpello oltre che, come psichiatra, come persona che ha lasciato scritte delle precise volontà sul suo personale testamento biologico, fin dal 1993, ed innanzitutto le chiedo: Qual è la differenza tra eutanasia attiva e passiva?

La differenza è fondamentale. Purtroppo spesso, in modo particolare in situazioni socialmente e moralmente “importanti”, che quasi sempre si caricano o sono caricate di emotività, si tendono a confondere e ad usare come sinonimi, termini o concetti molto diversi nella sostanza. Eutanasia significa “morte facile”, o meglio, se volessimo affidarci all’uso comune dell’elemento Eu (come in eugenetica o eutimia, ad esempio) potremmo dire “morte buona”. É un termine carico di significati, di paure e di spettri. Semplicisticamente, attivo significa “su richiesta”, ed implica un “atto”, una azione mirante al facilitare la morte. Passivo, diversamente, consiste, in sostanza, nel “lasciar morire”, quello che gli autori anglosassoni chiamano “letting die”.

Come immaginerá, il concetto di morte buona é fortemente condizionato dalla cultura in cui si vive. La “buona morte” solitaria di un Samurai Giapponese, esempio per antonomasia dell’autocontrollo, dell’autonomia e dell’autodeterminazione, perfino esasperato se si vuole, é ben diversa da una morte “greca” con prefiche e lamentazioni. Entrambe sono esempi di fine. Ma molto diverse tra loro.

Il caso Englaro, come quello Welby: cosa ha modificato, a lungo termine, nella società italiana? Oppure è stato un fuoco di paglia?

foto di Silvana Marrapodi

Vuole la mia opinione? Temo sia stato un fuoco di paglia. I tristissimi casi di Eluana Englaro e di Piergiorgio Welby, sono un esempio di quello che dicevo prima, circa situazioni socialmente e moralmente importanti che si caricano di emotivitá. E che vengono tristemente strumentalizzate. Però sono situazioni comuni, che personale sanitario e familiari si trovano ad affrontare quotidianamente. Sono due situazioni peraltro molto diverse tra loro. Una di una donna in stato vegetativo, l’altra di un uomo consapevole fino alla fine.

La speranza é che entrambe le situazioni possano portare ad un maggiore rispetto per l’autonomia personale, ma anche al buon senso. Al buon senso che ci dovrebbe governare e che dovrebbe ricordarci che la morte é, in ultima analisi, il risultato, o per dirla in termini medici, l’esito della vita stessa. Purtroppo la medicalizzazione della vita e la tecnocrazia da cui nessuno é immune, ci fanno spesso dimenticare il buon senso.

 Cosa permette la legge del Friuli in materia di “volontà del paziente”?

Per “legge del Friuli” intende la legge di iniziativa popolare che vorrebbe legittimare l’eutanasia e consentire il rifiuto dell’intervento sanitario, e che legge ancora non è? La proposta, altamente etica e governata appunto dal buon senso, prevede il rispetto dell’autonomia decisionale in merito al rifiuto di terapie mediche, inclusa la nutrizione artificiale. Prevede anche la depenalizzazione del sanitario che dovesse “aiutare” un malato a morire, che invece oggi, allo stato attuale delle cose, si vedrebbe accusato di omicidio, di istigazione al suicidio o di omissione di soccorso. La proposta non prevede l’omicidio.

Ma il rispetto della volontà individuale e dell’autodeterminazione, entrambi spesso scavalcate o, piú semplicemente ignorate. Il problema con la “legge del Friuli” è implicito nella pericolosità della premessa e nella rischiositá del risultato. La proposta in questione prevede la capacità di intendere e volere del soggetto “richiedente” aiuto (la facilitazione della morte) o rifiutante “aiuto” (l’intervento clinico).

Purtroppo non è raro che chi si trovi in situazioni estreme, come quelle di malattia grave o condizioni di estrema dipendenza, sia depresso, clinicamente. Non è raro anche, che chi si occupa della persona che richieda la sospensione delle cure, sia a sua volta depresso. O quantomeno demoralizzato. Situazioni, entrambe, la depressione e la demoralizzazione, altamente curabili. È qui il paradosso. Un po’ come la pena capitale negli USA, in cui un condannato non puó essere messo a morte se non è sano. Bisogna essere sani per morire. Non è una battuta. È uno dei tanti paradossi etici che la medicalizzazione e la tecnocrazia ci mette di fronte.

Se ci fosse una legge che regolamentasse l’eutanasia (così come esiste la legge per l’interruzione di gravidanza), l’obiezione di coscienza in ambito medico, rappresenterebbe un ostacolo alla sua eventuale applicazione?

Beh, in un certo senso si. Non diversamente dalla legge sull’aborto. Il 70% dei medici ginecologi è obiettore di coscienza. Nel caso di una legge che regolamentasse l’eutanasia, ci si troverebbe nella stessa situazione. Ci si troverebbe di fronte ancora una volta a schieramenti opposti. Non c´è dubbio che il giuramento che molti medici hanno dimenticato, quello ippocratico, sia, per giocare con le parole, diventato un giuramento ipocrita.

Lo stesso giuramento, negli USA, é cambiato con il cambiare delle circostanze sociali. Ai giovani laureati della Johns Hopkins University, dove io mi sono specializzato, nel 1985 veniva consegnato, al momento della laurea, un giuramento Ippocratico che diceva, tra le altre cose, piú o meno cosí: “ non daró alcun farmaco … con un intento criminale…” . Nel 1994, a distanza di dieci anni, recitava invece, allo stesso punto :” non daró alcun farmaco…senza uno scopo giustificabile…”. È ovvio le implicazioni sono molto diverse.

Qual è il limite tra accanimento terapeutico e eutanasia? E’ solo soggettivo, o può essere oggettivo?

foto di Silvana Marrapodi

Beh, sono due concetti molto diversi. I fautori dell’eutanasia sono ovviamente contrari all’accanimento terapeutico. Non credo si possa dire che l’accanimento sia soggettivo. Ogni nostro intervento dovrebbe essere suffragato dall’oggettivitá e dalla comprovata efficacia terapeutica. E il risultato del nostro lavoro dovrebbe essere la guarigione, o la cura, o ancora l’abilitazione, ossia la capacitá di vivere, indipendentemente da eventuali limiti fisici o psichici. Ma il lavoro del medico non puó essere il mantenimento “in vita” di una macchina. Noi non siamo macchine. Il problema principale dell’intero concetto di eutanasia è nello stabilire chi è che decide cosa sia la qualità della vita. Un argomento molto spinoso.

Dovendo ragionare su un modello di legge, il dibattito in Italia, anche solo a livello politico è pressoché impossibile. Quali esperienze all’estero, secondo lei, possono orientare una discussione pubblica non manichea?

Mah. È la domanda da un milione di euro! L’approccio all’etica medica non puó che essere manicheo. E non puó che essere governato dalle opinioni, che sono, per definizione umane. L’esempio di altre nazioni in cui l’esperienza rispetto all’eutanasia è molto diversa, ad esempio l’Olanda, o gli stessi USA, risente per forza di cose di influenze culturali, e quindi filosofiche, e religiose.

Le advance directives, ossia una sorta di testamento biologico, redatto in piena consapevolezza ed in un momento di piena salute, che lascia delle indicazioni circa cosa si desidera nel momento in cui non saremmo piú in grado di partecipare a decisioni che riguardino il nostro stato di salute, sarebbe, in teoria, un buon inizio. Ma non senza problemi ed “effetti collaterali”, anche imprevedibili a volte. L’essere umano è per definizione teso al cambiamento di opinione.

Decidere in anticipo puó, di fatto, cambiare addirittura gli atteggiamenti dei sanitari, per motivi che possono addirittura esulare da motivazioni di tipo medico. I pericoli sono quindi evidenti. Ma non insormontabili. Non si puó pensare che la medicina sia onnipotente. Ma forse, al famoso aforisma “primum non nocere”(prima non nuocere), che abbiamo tutti imparato, e forse dimenticato, dovremmo aggiungere un piú attuale, “secondo non abbandonare”. Sarebbe già un buon inizio.

Sonia Topazio

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