È finito il semestre italiano di guida dell’Unione Europea e il Premier, Matteo Renzi, a Strasburgo ha tenuto un discorso attraverso il quale ha ripercorso le tappe della nostra presidenza e ha messo in evidenza, secondo quella che è la sua prospettiva, quanto (senza successo) si è tentato di fare non solo a livello europeo ma anche a livello nazionale. Tante parole altisonanti e cariche di significato, quelle pronunziate dal segretario del Pd, le stesse a cui ci ha abituati nel corso degli ultimi mesi, che, tuttavia, generano un quadro complessivo che desta non poche perplessità.
Nonostante Renzi abbia rivendicato il lavoro svolto nel tentativo di dare “un’anima” all’Europa, il vecchio continente – è inutile nasconderlo – rappresenta oggi una mera espressione geografica, del tutto priva di una prospettiva comune di sviluppo e di quella tanto agognata unità politica, considerata quale presupposto principale per definire, riempire di contenuti e rafforzare il concetto di cittadinanza europea. Il sentimento popolare di appartenenza all’Europa, già di per sé abbastanza debole, è stato, infatti, profondamente condizionato dalle perverse dinamiche degli ultimi anni che, anziché unire i popoli attorno ad un progetto di condivisione fondato su valori e principi comuni, che esaltasse e fortificasse similitudini e differenze, come momento supremo dei processi di condivisione ed integrazione, hanno amplificato le distanze e, al contempo, reso gli Stati membri più vulnerabili sul piano interno e meno incisivi su quello esterno.
Forse questo è stato il prezzo pagato per aver deciso di fondare l’Ue su principi discutibili come il materialismo, il relativismo culturale e la supremazia dell’economia e delle sue logiche (speculazione in testa) sulla politica e sulla vita dei cittadini. Quella che è stata definita “Unione sovietica europea”, per dirla in poche parole, è un fallimento. L’individualismo, l’egoismo di alcuni Paesi e l’applicazione di politiche di austerità – che proprio la speculazione hanno avvantaggiato a discapito del lavoro – hanno fatto il resto.
Nonostante questo, e nonostante un’Europa che ha completamente dimenticato le proprie radici, piegandosi ad istanze provenienti da altri contesti (il riferimento non è “soltanto” alla cultura islamica), v’è chi continua a chiedere più Unione e meno sovranità nazionali. Lo stesso Renzi ha dichiarato che “a nostro giudizio stiamo andando nella giusta direzione, ma dobbiamo fare di più. Noi siamo pronti a fare la nostra parte, a credere nell’investimento sulla flessibilità”. Ma quale sia questa direzione non lo ha capito quasi nessuno, se non gli addetti ai lavori, cosi come non si riesce a capire perché l’investimento cui si fa riferimento ancora sia racchiuso in una fase più che embrionale. Il vero problema è che probabilmente si continua a credere in qualcosa che, in realtà, non esiste. Ed è lo stesso ex sindaco di Firenze a lasciarlo intendere. “Credo che o l’Europa cambia marcia nell’economia – ha continuato – o diventeremo fanalino di coda di un mondo che cambia rapidamente”. Cos’è questa se non un’ammissione di insuccesso. La verità è che, al di là delle parole melodrammatiche, delle promesse poetiche e delle retorica, ed eccezion fatta per singoli interventi che appaiono più che altro come strumenti ideati al solo scopo di consentire al sistema di non implodere sotto i colpi dell’ipocrisia e dell’incapacità, non c’è nulla di concreto.
In Europa, piuttosto, siamo sull’orlo del precipizio economico e sociale, per superare il quale non si chiedono sacrifici e rinunce (anche consistenti) a speculatori e grandi gruppi economici, ma ai singoli lavoratori, nei termini di una diminuzione dei diritti sociali. Prova ne è il fatto che, se da un lato, la crisi colpisce senza pietà famiglie, operai e piccole e media imprese, i grandi gruppi continuano a crescere e la ricchezza si sposta concentrandosi sempre più nelle mani dei soliti noti che vedono incrementare notevolmente profitti e “conti in banca”. L’dea, controversa e contorta, cui lui e altri leader europei, fanno riferimento è passata in giudicato e ha messo in evidenza tutte le sue lacune, a cominciare dall’ipocrisia. Questa Europa non serve a nessuno, se non ai soggetti di cui sopra.
Continuare ad agitare lo spauracchio della paura, come fa il nostro Presidente del Consiglio, è davvero stupido ed intellettualmente disonesto. L’attuale Europa, quella che è arrivata ad un bivio, non è stata governata da coloro che ne contestano impostazioni e proiezioni socio-economiche e vorrebbero che si facesse qualche passo indietro per evitare conseguenze ancora più drammatiche, ma da coloro – popolari e socialisti – che poco hanno pensato a costruire seriamente piattaforme comuni sulla quali costruire impalcature che ascoltassero le esigenze di tutti. È stato, invece, proprio l’aumento delle distanze ad aver dato linfa vitale ai movimenti eurocritici che, in luogo della dicitura “Stati Uniti d’Europa,” che nulla di buono ha prodotto sino ad ora, si battono, piuttosto, per l’Unione Europea delle Nazioni, che non annulla le differenze ma le esalta come momento di confronto e crescita collettiva.
Non poteva, poi, mancare, come spesso accade, la contraddizione finale. Il leader del centrosinistra, non solo si è spinto sino ad affermare che il luogo dell’Europa è la piazza, sebbene, in Italia, le piazze che contestano le guarda sempre con sufficienza ed arroganza, ma ha fatto ancora di più: ha evidenziato l’importanza dell’incontro e del dialogo, rispetto al conflitto e allo scontro. Prendiamo nota del cambiamento di pensiero. In Italia ha sempre dichiarato che è finita l’epoca in cui una piazza ferma il Paese. In effetti la domanda sorge spontanea: a cosa serve il dialogo se, poi, le posizioni degli altri sono sistematicamente messe da parte, se non si tratta di soggetti ed individui con i quai si è “costretti” a scendere a patti (minoranza pd e confindustria su tutti).? Converrebbe che qualcuno dicesse al Premier che è l’ora di finirla con la sua demagogia, la sua retorica e le sue mistificazione.