Quante volte leggendo il nome del curatore di una mostra ci siamo chiesti: qual è il suo ruolo? Sceglie le opere da esporre? Si occupa della loro disposizione? Individua e contatta gli artisti? A queste (ma anche ad altre) domande risponde Francesco Bonami con il suo Curator: Autobiografia di un mestiere misterioso edito da Marsilio www.marsilio.it. (pp. 144, € 16,50). Il libro è comunque una lezione di vita per tutti. Elogia l’ignoranza: come capacità di conoscere il nuovo e spinta ad approfondire. Delinea i rapporti tra curatore e artista: sempre difficili; talvolta ambigui. Bonami racconta le sue esperienze. Interessanti e formative quelle americane. (10 anni come Manilow Senior Curator al Museum of Contemporaney Art di Chicago; Manilow era il filantropo che contribuiva a pagare il suo stipendio). Dove i mecenati svolgono un ruolo fondamentale. Le cattiverie dei colleghi e dei critici d’arte: spesso capaci solo di criticare e demolire o peggio di ostacolare i giovani finendo poi per essere travolti. Mentre è più saggio cogliere da essi linfa vitale e nuove idee. Sottolinea come è preferibile una mostra discussa e criticata a una che non suscita nessuna emozione. Vittima della propria perfezione. Una mostra del genere è sterile: non produce stimoli, non suscita interrogativi. Perché, per un curatore, il crimine peggiore è annoiare. E poi le cene e i week-end con artisti e collezionisti; i viaggi alla ricerca di nuove opere. I tanti incontri; a volte infruttuosi. Il suo arrivo alla Biennale di Venezia come curatore nominato da Franco Bernabè. Un incarico che ti segna e ti gratifica. Il curatore, per Bonami, non è un mestiere difficile. Definirlo così vorrebbe dire fare un torto ai tanti lavori realmente difficili. Ma il concetto che più si addice al curatore – secondo lui – è quello ebraico di Tzimtzum o Tzim Tzum. Per i cabalisti è la contrazione di Dio che così fa spazio al mondo. Anche se il curatore non è Dio o Rembrandt, ma – ricorda, infine, Bonami – alcuni si ritengono entrambi.
Tonino Nocera