di Fabrizio Pace – Abbiamo ascoltato attentamente quanto raccontatoci da Daniela Gelso, capo progetto di una nota ONG italiana in Costa d’Avorio, riguardo l’epidemia di Ebola scatenatasi in Africa occidentale. A suo dire, la situazione è grave.
L’alta mortalità e la mancanza di terapie per il trattamento e la cura della febbre emorragica hanno spinto l’OMS a dichiarare il virus «un’emergenza di salute pubblica di livello internazionale».
Ma si sta diffondendo una psicosi ingiustificata riguardo ad un eventuale contagio fuori del continente africano. Daniela crede che in Europa, dove esistono misure preventive e protocolli sanitari efficaci, l’Ebola non arriverà affatto. Per quanto riguarda il continente africano, la situazione è ben diversa.
Qui l’ignoranza della gente, la diffusione di certe pratiche tradizionali, l’inadeguatezza delle infrastrutture sanitarie e la relativa debolezza dei governi nella predisposizione di sistemi di controllo, allerta e trattamento dell’epidemia favoriscono la propagazione del virus. Quest’ultimo ha un tasso di mortalità compreso tra 50% e 90% ed è quindi molto aggressivo.
Basti sapere che dall’inizio del 2014 l’OMS ha registrato più di un migliaio di morti e che il numero delle vittime cresce di giorno in giorno. In una recente riunione del coordinamento nazionale umanitario, il portavoce di Medici Senza Frontiere, ONG in prima linea nella lotta contro l’Ebola nei Paesi toccati dal fenomeno (ultimo arrivato, la Nigeria), ha annunciato senza peli sulla lingua che la situazione NON é sotto controllo. Basti pensare che per assistere un solo malato colpito da febbre emorragica serve un team specializzato composto da più medici ed infermieri.
In Paesi come la Liberia o la Guinea Conakri é praticamente impossibile assicurare un’assistenza del genere a ciascuna delle centinaia di persone contagiate. Tra le cause della diffusione dell’Ebola, la nostra cooperante internazionale, originaria di Saronno (VA), cita soprattutto l’ignoranza: ci racconta che un collega italiano in Sierra Leone (Paese in cui la sua organizzazione ha scelto di restare nonostante i rischi di contagio) testimonia che nei villaggi la gente nasconde i malati in casa, per paura.
Per loro andare in ospedale equivale ad andare a morire. Per altro verso, i riti funebri tradizionali prevedono che il cadavere resti in casa per giorni, a contatto con i vivi, per la realizzazione di alcune pratiche religiose, il che ovviamente favorisce la propagazione della malattia. In questa situazione drammatica, mentre i governi africani chiudono le frontiere terrestri e le compagnie aeree annullano i voli verso i Paesi toccati dall’Ebola, ci si prepara ad ogni evenienza.
La Costa d’Avorio, che confina con Liberia e Guinea Conakry, due focolai del virus in cui é stato recentemente dichiarato lo stato di emergenza, finora è rimasta indenne.
Tuttavia, nonostante le misure preventive messe in atto (controllo delle frontiere, divieto di vendita e consumo di selvaggina, sensibilizzazione a tappeto della popolazione), basta un solo caso, sfuggito alle maglie dei controlli, per propagare rapidamente un’epidemia che difficilmente potrà essere controllata.
Gli espatriati che lavorano nel settore privato mettono in conto di lasciare il Paese alla prima minaccia. Le ambasciate europee aggiornano le liste dei connazionali per intervenire tempestivamente in caso di evacuazione.
“Per noi cooperanti internazionali – afferma Daniela – si tratta di seguire attentamente l’evoluzione dell’epidemia per capire come poter essere utili. E’ infatti in situazioni simili che c’é più bisogno di un coordinamento specializzato degli interventi. Noi che non siamo specialisti in medicina, possiamo e dobbiamo giocare un ruolo di primo piano nella sensibilizzazione della popolazione locale per il contenimento dell’epidemia.
Nessuno è obbligato a restare, chiaro, ma chi lavora in ambito umanitario sa che questo comporta dei rischi. Quando le cose si mettono male noi espatriati possiamo sempre levare le tende e partire, i nostri colleghi e amici del posto no…chi può dare una mano nel contenimento del fenomeno – conclude – ha il dovere di fare qualcosa”.
Fabrizio Pace