Andando in giro per il paese, soprattutto con i primi caldi di maggio, capitavano brutti incontri. Maggio era il mese degli amori, si sentivano i gatti urlare come matti nel rito del corteggiamento, i contadini tardivi portavano le mucche al toro, ma soprattutto le bisce si affrettavano ad accoppiarsi per poter deporre le uova prima del prossimo letargo. Dovunque c’era acqua in abbondanza c’erano le bisce. Nelle “gebbie” (vasche di raccolta dell’acqua per l’irrigazione dei giardini), nei canali del Consorzio irriguo del Calopinace, nelle pozze, lasciate dalla fiumara in ritirata pre estiva. A maggio le vedevi, innumerevoli, nella loro danza rituale di corteggiamento, non più striscianti per terra, ma alzate in piedi per due terzi del corpo, spesso attorcigliate. Erano terrorizzanti, scappavamo urlando “Uzzimonicu càzzamonica”, per dare l’allarme. Avevo paura dei rettili, per cui quando mi capitava di incontrare qualche biscia o qualche vipera rimanevo terrorizzato. Mi accadde un giorno di vedere una biscia sul sentiero poco prima della casa alla quale ero diretto. Il terrore mi fece raggiungere quella casa di corsa. Il padrone di casa se ne avvide e mi chiese spiegazioni. Raccontato l’accaduto mi disse che quella biscia viveva li da anni ed era il loro portafortuna. Mi prese per mano e mi condusse fuori. Incontrammo la biscia, ci fermammo ad osservarla, anche la biscia si fermò ad osservare noi. A modo suo era un bell’animale. Si crogiolava al sole senza curarsi di noi, era evidente che era abituata a vedere l’uomo a distanza ravvicinata. Non mostrava alcuna intenzione di venirci incontro e men che meno di aggredirci. Rimasi sorpreso ed affascinato da quell’animale del quale avevo sempre avuto paura. Don Bastiano mi spiegò che gli animali aggrediscono l’uomo solo per difendersi, quando invece tu li rispetti, essi rispettano te. Imparai allora grazie a don Bastiano a rispettare ogni genere di animale. Ma imparai soprattutto ad osservarli, nel loro essere, nel loro fare. Mio zio Vincenzo e mia madre mi avevano trasmesso il gene dell’amore verso gli animali. Mio zio Vincenzo che chiamava per nome tutte le sue mucche. Mia mamma che curava amorevolmente dalla gatta Ciccia al passerotto che raccoglieva in terrazzo, prendendosi i dileggi di mio padre, che la invitava ad abbandonarli, ma poi, sotto sotto, rifilava qualche formaggio o salume più del giusto, pur di imboccarlo a gatta Ciccia. Adesso il gene si univa alla ragione, la fortuna di essere al contatto con la natura e con gli animali, la fortuna di avere maestri di vita ed educatori che insegnavano amore e rispetto per gli animali e per la natura, mi avevano fatto capire quanto fossero indispensabili per noi e come non ne avremmo mai potuto fare a meno, figuriamoci abbandonarli.
Enzo Cuzzola