Mio padre andava verso la cinquantina, per questo viaggiare, in inverno, sulla ceccato 98 (la sua mitica moto), incominciava a pesargli. Ragion per cui aveva comprato, come sappiamo, la ape piaggio 125, usata. La aveva furgonata subito, con apposite centine e telone, per potervi trasportare, oltre che le bombole, anche i mangimi animali e le derrate per la bottega.
Il Mercoledì pomeriggio, quindi, era dedicato alla scesa in città, per gli approvvigionamenti, presso il noto ingrosso della ditta Tripodi, di piazza Carmine. La stessa ditta che gestiva le corriere per la zona ionica della nostra provincia. Sbrigavo i compiti alla velocità della luce per poter andare con lui. Prendevo posto, in cabina, alla sua sinistra, dato che, essendo il freno a pedale posto a destra, il guidatore dell’ape si decentrava verso il lato destro della stessa, guidando seduto su una panca metallica, rivestita di un sottile cuscino in gommapiuma, al di sotto della quale era collocato il motore. Da li, sia attraverso il parabrezza, sia dal finestrino laterale, apribile solo per un piccolo deflettore, avevo modo di gustare il mondo. Quel mercoledì di aprile, erano arrivate le prime sciroccate primaverili e la temperatura sembrava quasi estiva. Il viaggio fino a Reggio, in quel minuscolo abitacolo, si presentò alquanto rovente.
L’unica aria che entrava in cabina era quella dei due deflettori sugli sportelli laterali. Da sotto la panca, prodotto dal motore, saliva un calore infernale. Finite le solite incombenze presso la ditta Tripodi, dove il signore che chiamavano “il ragioniere”, mi fece dono del solito spicchio di provolone, del quale andavo ghiotto, ci accingevamo al rientro. Fu allora che dissi a mio padre che mi sarebbe piaciuto viaggiare nel cassone di dietro, fra i sacchi di crusca che avevamo comprato. Mio padre dapprima disse che era pericoloso e poi non era ammesso. Ci avessero fermato i carabinieri ci avrebbero multato. Poi disse che in casa nostra i sacrifici andavano affrontati e condivisi assieme da tutti, per cui bisognava che imparassi a sopportare il “caldo al culo” anche io. Affascinante e torrida ape.
Enzo Cuzzola