La mia prima esperienza scolastica non era stata delle migliori. Ripetevo quell’anno la prima elementare, essendo stato bocciato l’anno prima per somma di assenze. Purtroppo una lunga degenza, conseguenza forse (come dicevano i medici sussurrando sottovoce ai miei genitori) di una miocardite, che mi rendeva debolissimo, mi aveva fatto perdere l’anno. A ottobre del 1962 mi ero quindi riscritto alla prima elementare, con tanta voglia di imparare e di recuperare il tempo perduto. Ma anche quell’anno la salute non era delle migliori. Anche le preoccupazioni non erano da meno, dato che, ad ogni consulto medico, mi rendevo conto, dal cambiamento dei volti dei medici e dei miei genitori e fratelli, che le cose non andavano bene. Ma la mia maggiore angoscia non era quella. Era che non riuscivo a pronunciare bene né la esse, né la erre. Tanto che mio fratello Pasquale, settimino e burlone, non perdeva occasione per ripetere sfotticchiandomi “Pakale obo e la mama”. Mi arrabbiavo e le cose peggioravano perché, allora, non riuscivo del tutto a pronunciare quelle due benedette consonanti. Un giorno, parlando con il maestro Zaccaria, che si complimentava con me per lo svolgimento di un tema, gli dissi che si magari sapevo scrivere, ma non sapevo parlare. Era un santo uomo e l’ho già detto. Da quel giorno si armò di santa pazienza. Mi faceva leggere a voce alta brani sempre più complicati, per la gioia ed ilarità dei miei compagni di classe. Più ridevano a crepapelle, più il maestro mi intimava di andare avanti. Invitando qualcuno di loro a pronunciare correttamente la parola da me storpiata, intimandomi di ripetere la pronuncia. Quante cose sapeva fare e quanti problemi sapeva risolvere il maestro Zaccaria. Sapeva insegnare a leggere e scrivere, sapeva anche insegnare a pronunciare, ma soprattutto sapeva insegnare a vivere, anche nelle difficoltà.
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