Pacem in terris

Era l’11 aprile del 1963, Giovedì Santo, quando il Papa Giovanni XXIII, varò la sua enciclica Pacem in Terris. Lo annunciarono al telegiornale. Ci volle tutto lo sforzo di zio prete e tutta la mia attenzione per capire cosa fosse una enciclica. Alla fine però riuscì a capirlo. Zio prete, che sapeva come essere convincente quando voleva che qualcuno facesse qualcosa di suo gradimento, mi disse che non era roba per me e che, se la avessi letta, non l’avrei compresa perché roba da grandi.VATICANO Papa Giovanni XXIII, che tutti chiamavano il Papa buono, era entrato nel mio cuore, da quando una sera dell’ottobre precedente aveva fatto “un discorso alla luna”, riportato spesso in televisione, ogni volta che si parlava del Concilio. Pensavo spesso a quella frase: Tornando a casa, troverete i bambini. Date loro una carezza e dite: “Questa è la carezza del Papa”. Il Papa aveva pensato a noi bambini, mandandoci una carezza, e questo me lo aveva fatto pensare come un padre per tutti noi, anzi come un nonno buono, anche perché io non avevo avuto la fortuna di conoscerli, i miei nonni, e, da quella sera, mi scelsi lui per nonno ideale. Ma in quel famoso ottobre c’era stata anche la crisi di Cuba, della quale leggevo spesso sul giornale, al salone di Vincenzo, e se ne parlava spesso al telegiornale. Quella notizia mi angosciava, pensavo ai racconti della guerra ascoltati dalla voce di mio padre, al fatto che potesse essere richiamato di nuovo in una eventuale guerra e la cosa mi toglieva il sonno ed il, già debole, respiro. Ma vedevo nel Papa buono la guida per l’umanità, che se lo avesse ascoltato non avrebbe mai potuto pensare ad una guerra. Dopo qualche giorno, zio prete, portò una copia della enciclica. La lasciò sul proprio tavolo da lavoro, per leggerla attentamente, la sera prima di andare a dormire. Ma c’era qualcun altro che, mentre lui faceva il pisolino pomeridiano, russando fragorosamente, la leggeva e rileggeva. Avevo accettato la sfida e dovevo capirla. Non era semplice capire, ma mi colpì un passaggio, che copiai integralmente nel quaderno di scuola, per parlarne con il maestro Zaccaria. Ancora una volta ci permettiamo di richiamare i nostri figli al dovere che hanno di partecipare attivamente alla vita pubblica e di contribuire all’attuazione del bene comune della famiglia umana e della propria comunità politica; e di adoperarsi quindi, nella luce della fede e con la forza dell’amore, perché le istituzioni a finalità economiche, sociali, culturali e politiche, siano tali da non creare ostacoli, ma piuttosto facilitare o rendere meno arduo alle persone il loro perfezionamento: tanto nell’ordine naturale che in quello soprannaturale. Il maestro mi spiegò, a parole sue, che, per il Santo Papa, la politica era una cosa seria, nella quale ciascun cattolico doveva impegnarsi, alla luce del chi più ha più dia, per permettere, con spirito di servizio, la promozione della condizione umana. Mi venne in mente il delegato comunale. Poco cattolico e tanto politico.

 

Enzo Cuzzola

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