Secondo il brocardo latino “Mater semper certa est, pater numquam”, la maternità è sempre certa, la paternità, invece, non sempre; difatti, mentre la prova giuridica del rapporto di filiazione madre-figlio è, nella maggior parte dei casi, fornita dal fatto “naturale” del parto, quella della paternità, in caso di dubbio, è molto più difficile da provare giudizialmente. Tuttavia, quand’anche il rapporto di filiazione madre-figlio sia messo in dubbio nei casi in cui non può essere giuridicamente provata dal fatto “naturale” del parto, soccorre il nostro Ordinamento Giuridico, secondo il quale, in tali casi, la prova della maternità può essere fornita con ogni mezzo, anche mediante il ricorso alle presunzioni: ai sensi dell’art. 269, co. III°, del Codice Civile, infatti, “la maternità è dimostrata provando l’identità di colui che si pretende essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna, la quale si assume essere madre”.
Così come la prova della maternità, anche quella della paternità, nei casi dubbi, può essere fornita con ogni mezzo, anche presuntivo, salvo, però, la limitazione prevista dall’art. 269 C.C., co. IV°, secondo cui “La sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra la madre ed il preteso padre all’epoca del concepimento non costituiscono prova della paternità naturale”. In tal casi, dunque, oltre alle presunzioni legali ex artt. 232 e sgg. del Codice Civile in caso di matrimonio tra coniugi, si può ricorrere alle prove scientifiche della comparazione del sangue e, soprattutto, del DNA.
Ovviamente, il presunto padre non è obbligato a sottoporsi a tale esame, ma il suo rifiuto costituisce un comportamento liberamente apprezzabile dal Giudice, che, da esso, può, comunque, trarre “elementi” di prova, qualora il suo diniego appaia “ingiustificato”: ai sensi dell’art. 116 del Codice di Procedura Civile, infatti, “Il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti. Il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno a norma dell’articolo seguente, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni che egli ha ordinate e, in generale, dal contegno delle parti stesse nel processo”. E, tra i motivi che potrebbero essere addotti dal presunto padre per rifiutarsi di sottoporsi all’esame del DNA e che, dunque, rientrerebbero nell’alveo del libero apprezzamento del Giudice ex art. 116 C.p.c,. vi è il diritto alla privacy ed alla riservatezza dei propri dati personali, diritto che l’esame del DNA potrebbe andare a violare. Orbene, nella Sentenza n. 20235/12 della Corte di Cassazione, gli Ermellini hanno, appunto, dichiarato “ingiustificato” tale motivo, ritenendo che il diritto alla privacy non viene in alcun modo intaccato dall’esecuzione dell’esame del DNA, considerata l’assenza di invasività dello stesso a fronte della certezza, pressoché assoluta, circa i risultati conseguiti con il test: conseguentemente, a parere dell’On.le Suprema Corte, l’eventuale rifiuto di sottoporsi all’esame del DNA è assolutamente “ingiustificato”, e, quindi, costitusce un comportamento liberamente valutabile dal Giudice ai sensi del predetto articolo 116 C.p.c.; e ciò, anche in assenza di prove dei rapporti sessuali tra le parti, in quanto, secondo gli Ermellini, “è proprio la mancanza di riscontri oggettivi assolutamente certi e difficilmente acquisibili circa la natura dei rapporti intercorsi e circa l’effettivo concepimento, a determinare l’esigenza di desumere argomenti di prova dal comportamento processuale dei soggetti coinvolti, potendosi trarre la dimostrazione della fondatezza della domanda anche soltanto dal rifiuto ingiustificato a sottoporsi all’esame ematologico del presunto padre, posto in opportuna correlazione con le dichiarazioni della madre”. La Suprema Corte, quindi, con la Sentenza n. 20235/12 ha avallato l’orientamento costante della Giurisprudenza pronunciatasi sinora sul punto, secondo la quale non costituisce valido motivo di opposizione al test del DNA, nè la presunta violazione del diritto alla privacy, nè, tanto meno, del diritto alla riservatezza dei dati personali, poichè, a parere dei Giudici di legittimità, essendo l’uso dei dati acquisiti tramite il test del DNA esclusivamente diretto a fini di giustizia, e, poichè il Consulente che lo esegue è tenuto, non soltanto al segreto professionale, ma, altresì, al rispetto della Legge n. 196/03 sulla tutela dei dati personali, l’esecuzione del test del DNA non determina alcuna lesione della libertà personale.
Avv. Antonella Rigolino