Nel linguaggio comune i termini “azienda” ed “impresa” sono usati indifferentemente per indicare quella attività economica creata dall’imprenditore al fine di realizzare una presenza duratura sul mercato, attraverso cui realizzare un utile. L’imprenditore è quella persona che utilizza capitali propri, o capitali presi a prestito, o ambedue, per organizzare un’attività economica. Quest’ultima può essere di diversi tipi. La più semplice attività economica è il commercio. L’imprenditore acquista la merce presso il produttore di quest’ultima, o presso il grossista, che è un altro commerciante. La merce così acquistata viene, poi, rivenduta al consumatore; ovviamente, ad un prezzo maggiorato, per potere compensare le spese ed i costi cui il commerciante va incontro, e per poter realizzare un legittimo guadagno. Prima riflessione: la maggiorazione del prezzo che il commerciante pratica sulla merce acquistata (il “ricarico”) quasi sempre è vincolata dal prezzo di mercato di quel bene. Il commerciante non può presentarsi sul mercato di libera concorrenza con un prezzo superiore al prezzo di mercato stesso. Le due uniche strategie per poter rimanere sul mercato sono: quella di ridurre i costi di gestione dell’azienda, o quella di ridurre le prospettive di guadagno netto. E per quest’ultima situazione si prospetta la seconda riflessione, che riguarda la remunerazione del capitale investito. La convenienza, o per meglio dire l’opportunità di cominciare una determinata attività economica si valuta attraverso una serie di studi che prendono il nome di marketing; fra gli studi preliminari vi è anche la prospettiva di remunerazione del capitale investito: vale a dire che se io investo una determinata somma in un’attività economica, dovrò attendermi un guadagno netto che sia di qualcosina maggiore del rendimento netto che quella somma può ottenere sul mercato attuale dei capitali, per la stessa durata di tempo di vincolo (titoli di Stato, per esempio); perché è evidente che se la remunerazione che un titolo di Stato offre per quella somma è maggiore della remunerazione che l’azienda prospetta di offrire, è certamente inutile effettuare quell’investimento perché si rivelerà antieconomico. Le cose si complicano un tantino quando si consideri l’attività manifatturiera. Di proposito usiamo questo termine, per indicare ogni attività economica il cui prodotto finale sia un bene costruito utilizzando materie prime, energia ed intelligenza umana (lavoro manuale, creatività, …). La differenza fra processo produttivo di tipo artigianale e di tipo industriale, infatti, sta nella produttività per addetto. Nella bottega dell’artigiano la produttività è 1 (pezzo)/1 (addetto) = 1, mentre nello stabilimento industriale la produttività è (poniamo) 100.000 (pezzi)/100 (addetti) = 1.000. L’artigiano acquista la materia prima e la trasforma in prodotto finito con un procedimento operativo in cui il lavoro manuale e l’intelligenza hanno la prevalenza sull’opera delle macchine, e di solito il prodotto finale non è mai uguale ad un altro. Pensiamo ad un falegname che produca mobili: egli adopera certamente delle macchine per eseguire il taglio del legno, ma il montaggio, l’assemblaggio, la verniciatura, la lucidatura, il montaggio delle maniglie, e quant’altro, tutte queste lavorazioni vengono effettuate con il lavoro manuale e con l’intelligenza. Ovviamente si tratterà di un procedimento che richiederà un tempo abbastanza lungo. Ora, per rimanere nel discorso, ecco, già l’artigiano ha dei margini di “ricarico” leggermente più flessibili rispetto ad un comune commerciante: dal momento che realizza un’opera artigianale – possiamo dire opera d’arte nel senso stretto del termine – può spuntare un prezzo leggermente superiore al prezzo che il mercato assegna a prodotti industriali realizzati in serie con processi ripetitivi.
Prof. Giuseppe Cantarella