18\06\2012 – Per “danno tanatologico” o” danno da morte” si intende il danno derivante dalla morte di un soggetto a seguito di un’azione di terzi, morte provocata, in genere, da una lesione o, comunque, cagionata da un fatto illecito altrui, senza, però, che sia trascorso un apprezzabile lasso di tempo tra la lesione e il decesso, cosicchè si possa pacificamente presumere che il secondo sia stato esclusivamente effetto della prima, escludendo, in tal modo, altre eventuali cause di morte. Orbene, seppure tale figura giuridica non trovi un pacifico riconoscimento in dottrina ed in giurisprudenza, il danno tanatologico viene configurato, generalmente, come un danno di natura “non patrimoniale” ex art. 2059 del Codice Civile, la cui tutela trova ratio e fonte giuridica nell’art. 2 della Costituzione, nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 e nella Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950: tutte queste norme, infatti, tutelando il diritto alla vita, come bene primario di ogni essere umano, ne impongono il risarcimento ogni qual volta questa venga menomata con l’evento letale, cagionato da una lesione illecita. In tema di risarcimento da danno tanatologico, dunque, in riferimento ai soggetti legittimati a chiederne il riconoscimento, viene in rilievo la tematica dei c.d. danni “da rimbalzo” o “riflessi”, ovvero di quelle conseguenze pregiudizievoli di natura, patrimoniale e non, che il fatto illecito produce sui soggetti legati da particolari vincoli giuridicamente rilevanti con la vittima diretta dell’evento lesivo. Secondo la dottrina e la giurisprudenza, i danni “da rimbalzo” sono risarcibili “iure proprio”, in quanto sono danni che alcuni soggetti subiscono direttamente, seppure costoro siano “terzi” rispetto alla vittima primaria dell’illecito. Invero, con la recente Sentenza n. 4253/12 della Corte di Cassazione Civile, gli Ermellini hanno statuito che, una volta che venga accertato il vincolo familiare tra la vittima dell’illecito ed i soggetti che subiscono i c.d. “danni mediati o di rimbalzo”, risulta altrettanto accertata l’esistenza del nesso causale tra lesione “primaria” subita dalla vittima deceduta ed i pregiudizi “secondari” cagionati ai prossimi congiunti, in quanto detto vincolo, giuridicamente rilevante e caratterizzato da una serie di obblighi reciproci di assistenza materiale e morale, rende, per così dire, “normale” la propagazione delle conseguenze lesive anche su soggetti diversi da quello direttamente interessato. Pertanto, aderendo all’orientamento restrittivo espresso da altra Giurisprudenza di legittimità, per poter ravvisare, nell’ambito dei rapporti parentali meno prossimi rispetto a quelli intercorrenti, ad esempio, tra i coniugi, o tra genitore e figlio, una posizione qualificata e meritevole di tutela, ossia il diritto alla conservazione delle relazioni familiari, è necessario accertare un rapporto di convivenza in senso stretto o, comunque, la sussistenza di un effettivo e continuativo sostegno morale tra i parenti in questione; sebbene, debba escludersi che l’assenza di coabitazione possa venire considerata come elemento decisivo, tale da impedire la configurabilità in capo ai parenti superstiti di una situazione giuridicamente tutelata alla conservazione del rapporto familiare, posto che, tale assenza, non è una circostanza di vita che possa escludere, a priori, “il permanere di vincoli affettivi e la vicinanza psicologica con il congiunto deceduto”.
Avv. Antonella Rigolino