“La peculiarità di Carlo Levi sta in questo: che egli è il testimone della presenza di un altro tempo all’interno del nostro tempo, è l’ambasciatore d’un altro mondo all’interno del nostro mondo” (Italo Calvino). Il problema meridionale affrontato nel romanzo autobiografico dello scrittore è stato scritto tra il 1943 e il 1944 (pubblicato nel 1945) dopo l’esperienza diretta da cui è nata successivamente la narrazione che non è un diario, ma un vero e proprio documento storico che analizza una realtà civile diversa, spesso nell’ombra se non dimenticata: quella dei contadini del Mezzogiorno. In un periodo storico che lo vide condannato durante il periodo del regime fascista in Lucania (per la sua attività contro il regime stesso), trascorre del tempo in Basilicata, ad Aliano (che nel libro viene chiamata Gagliano imitando la pronuncia locale) e a Grassano ( in realtà la prima tappa del suo confino). E dai paesaggi che ben poco hanno a che vedere con l’immaginazione, si anima e prende forma la sua narrazione. “…Cristo si è davvero fermato ad Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia. Cristo non è arrivato, come non erano arrivati i romani, che presidiavano le grandi strade e non entravano fra i monti e nelle foreste, né i greci, che fiorivano sul mare di Metaponto e di Sibari: nessuno degli arditi uomini di occidente ha portato quaggiù il suo senso del tempo che si muove, né la teocrazia statale, né la sua perenne attività che cresce su se stessa. Nessuno ha toccato questa terra se non come un conquistatore o un nemico. Le stagioni scorrono sulla fatica contadina, oggi come tremila anni prima di Cristo: nessun messaggio umano o divino si è rivolto a questa povertà refrattaria. Parliamo un diverso linguaggio: la nostra lingua è qui incomprensibile. I grandi viaggiatori non sono andati di là dai confini del proprio mondo; e hanno percorso i sentieri della propria anima e quelli del bene e del male, della moralità della redenzione. Cristo è sceso nell’inferno sotterraneo del moralismo ebraico per romperne le porte nel tempo e sigillarle nell’eternità. Ma in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si è fermato a Eboli”. Passo bellissimo, introduzione che fa cogliere nell’immediato il senso di desolazione e di abbandono, di triste consapevolezza negli occhi di chi il mondo un po’ l’ha conosciuto, che in alcune zone della Penisola tutto sembra fermo, incontaminato positivamente e arretrato negativamente. In un mondo in cui il progresso non lascia il tempo di riposarci, le lancette in alcune zone del meridione sembrano non riuscire a finire il giro completo. Ieri come oggi, problemi dimenticati, come se alcuni luoghi fossero inesistenti. L’attualità del romanzo si coglie in tante descrizioni, che non solo analizzano le realtà contadine assoggettate dalla piccola borghesia dei paesi, ma affrontano il problema cardine che anche oggi ci riguarda: lo Stato. Né lo stato fascista, né quello liberale, né quello comunista sono riusciti a trovare una soluzione adeguata per permettere al Sud di sentirsi parte integrante di un Italia (ai tempi giovanissima); né ad oggi, l’idea di Stato si concilia bene con le esigenze di un popolo che vuole cercare di sconfiggere una crisi sempre più incalzante. Similitudini azzardate, paragoni estremi che al di là degli anni trascorsi ci ricordano che siamo parte della Storia, e ogni mattoncino inserito, ogni pagina dai nostri antenati romani ad oggi non è altro che un grande riassunto di vite, di individui all’interno di una società: società che ha cambiato volto mille volte, e mille esempi abbiamo, ma che ancora non ha trovato la sua giusta identità.
Annamaria Milici