Si parte da Reggio Calabria. Si arriva al quinto titolo NBA in quattordici anni di carriera. Stiamo parlando di Kobe Bryant, leader assoluto dei Los Angeles Lakers campioni del mondo del 2010 per la sedicesima volta nella loro storia. L’uomo che ha trascinato i giallo viola verso gli ultimi due successi ha un passato dalla nostre parti. Kobe è figlio d’arte dato che suo padre è quel Jelly Bean visto per una decina d’anni in Italia ed anche in riva allo stretto in maglia Viola. Nella sua stagione in neroarancio, l’ex guardia-ala dei Sixers ha incantato il pubblico reggino che non aveva mai visto un talento offensivo di quel livello. Intanto, Joe Bryant aveva preso anche moglie (la bellssima miss Kansas 1984…) che gli aveva dato un figlio, tale Kobe, chiamato così per via del nome di una bistecca tanto apprezzata dai coniugi Bryant. Kobe ha otto anni quando sbarca a Reggio Calabria ed il pubblico reggino non può fare a meno di notare quel piccolo furetto che palleggiava ad ogni pausa di gioco delle partite di papà. Finisce la carriera europea di Joe e la famiglia Bryant torna in America, a Philadelphia, quella che diventa la scuola cestistica di Kobe che fa la high school nella città dell’amore fraterno prima di prendere la decisione di passare nella NBA senza andare al college. A quei tempi, i giocatori liceali non erano ancora ben visti della massima lega americana ma tutti capirono che sarebbe stato difficile ritardare il realizzarsi del sogno del piccolo Bryant: quello di entrare nella NBA: si innamora immediatamente di lui un certo Jerry West, l’uomo del Logo della NBA che fa di tutto per portarlo a Los Angeles, la franchigia di cui è stato il leggendario General Manager. Per arrivare a Kobe, West sacrifica uno dei più forti centri degli ultimi quindici anni, Vlade Divac, sbolognato agli Charlotte Hornets in cambio della scelta numero tredici del draft NBA. Kobe e Los Angeles, un matrimonio che sembra perfetto per far ritornare i giallo viola ad essere una superpotenza NBA anche perché, durante quell’estate, un’altra magia di Jerry consente di portare in giallo viola il totem Shaquille O’Neal. Ma quei Lakers non vincono subito ed hanno bisogno dell’arrivo del guru Phil Jackson nel 2000 per conquistare il primo titolo che dà il via ad un tripletta storica che apre la prima grande dinastia del nuovo millennio. A Los Angeles, amano i brividi ed i colpi di scena essendo la città che ospita la mecca cinematografica del mondo, quindi, nel 2004, Shaq se ne va seguito a ruota da coach Jackson ed ecco dunque che Kobe resta solo e cominciano stagioni avara di soddisfazioni. Ma, quando meno te lo aspetti, coach Zen decide di sedersi nuovamente sul pino giallo viola, viene fatto arrivare da Memphis lo splendido professore Pau Gasol, Odom si ricorda di essere il clone di Magic Johnson ed arrivano tre finali NBA di fila, due delle quali vinte, l’ultima giovedì notte quando o i Lakers si sono tolti dal groppone lo zero nella caselle delle sfide decise in sette gare con i rivali storici dei Boston Celtics. L’MVP delle finali? Kobe Bryant of course, autore di sette gare fantastiche e quasi inspiegabili per intensità e cattiveria agonistica. Il numero 24 dei Lakers ha festeggiato questo ennesimo traguardo anche con qualche parola in italiano dato che in squadra parla spesso la nostra lingua con il suo compagno Vujacic, visto per due stagioni nel Bel Paese. Complimenti dunque al piccolo Kobe che, dopo aver infiammato il Botteghelle di Reggio Calabria, è tornato in patria per diventare l’unico degno erede di sua maestà Michael Jordan per un viaggio ancora lontano dalla conclusione
Giuseppe Dattola