Da dove nasce tutta questa violenza?

L’Italia è un Paese sotto pressione, che vive quotidianamente episodi di inaudita violenza. Come una grande valigia in cui si cerca di mettere più vestiti possibili e si spinge, si spinge, ma non si riesce a chiuderla. Ogni giorno si aggiunge un indumento e arriverà ben presto il momento in cui tutto verrà sputato fuori, esploderà, lasciandoci attoniti e inermi a guardare. Una bomba ad orologeria, un clima di tensione elevato all’ennesima potenza, che non si riesce a spiegare. Che cosa sta succedendo? Si muore per un parcheggio, per una bicicletta, per una birra. Ci si spaventa persino di uscire di casa per paura di morire uccisi a pugni come la donna filippina pestata a morte a Milano, lo scorso agosto, da un pugile ucraino che era stato appena lasciato dalla fidanzata. Si va in coma per una banale lite per la fila alla biglietteria della metro, come è successo a Roma a un’infermiera rumena e di nuovo a Milano al tassista “reo” di aver investito involontariamente un cane che, a spasso senza guinzaglio, aveva attraversato all’improvviso la strada. Insulti, spintoni, calci, pugni, coltellate. Follia e furia omicida. Necessità vitale di sfogare le proprie frustrazioni scatenando le ire sul primo malcapitato di turno. E i passanti come reagiscono? Sono pochi quelli che intervengono, che denunciano, che prestano soccorso per difendere l’aggredito. Un mix di indifferenza, paura, assuefazione blocca tutti gli altri? Forse. Vite che si spengono in mezzo a una piazza, su un marciapiede, fuori da un locale  o sull’ambulanza del 118 che corre verso l’ospedale. Per non parlare poi del caso di Sara Scazzi, dei neonati  “buttati” nella lavatrice o sepolti nel giardino di casa. Da ultimo in ordine di tempo completa il quadro la guerriglia urbana di martedì a Genova, scatenatasi in occasione della partita di calcio Italia – Serbia. All’interno del Marassi lancio di petardi, aggressioni e tentativo di sfondamento della barriera antiproiettile che divideva gli ultras serbi, assatanati autori delle violenze, dal resto del pubblico genovese. La devastazione è proseguita poi all’esterno fino alle due di notte. Bilancio: decine di feriti, spranghe, coltelli, bastoni e bombe carta sequestrati dalla polizia. Ci si chiede come abbiano fatto a uscire dal loro paese con tutto questo bagaglio e soprattutto come abbiano fatto a entrare nel nostro. I controlli? Tanto decantati e poi dimenticati. Non si può andare allo stadio rischiando di non tornare a casa. Come non si può ogni giorno fare la conta delle vittime della follia umana. È proprio un paradosso. Abbiamo visto tutti le immagini che ci sono arrivate dal Cile sul ritorno in superficie dei 33 minatori che da più di due mesi vivevano sotto terra. È stato fatto di tutto per salvarli. Si è proceduto con intelligenza, cautela, umanità e rispetto. Ed è stata proclamata festa nazionale per la gioia, un canto alla vita. Mentre in Italia, dall’altra parte del mondo, la vita sembra non valere più nulla. Ci si arroga ormai il diritto di decidere di spegnerla a proprio piacimento, premendo un pulsante di un gioco. Un gioco pericoloso, di odio verso tutto e tutti, fatto di tante componenti. La più preoccupante è sicuramente il sentimento antisemita che si sta radicando ogni giorno di più in un’Italia che, a partire dai banchi di scuola fino ad arrivare alla grandi aziende, da Nord a Sud, è diventata intollerante “all’altro”. Altro che si avverte come una minaccia, quasi una mela marcia che bisogna punire, allontanare, “rimandare a casa”, ovunque essa sia. Fa paura tutto questo, è un ritorno al passato che deve essere fermato in tempo. Sono delle convinzioni sbagliate che trovano terreno fertile lì dove l’insicurezza, la poca autostima e l’insoddisfazione per la propria esistenza indeboliscono le menti e distruggono il futuro.

M.Cristina Scullino

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